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AFA

di Marco Rufini (1947-2015)

Mio padre era un uomo buono e semplice, i radi capelli crespi, le mani sempre in movimento. A sei anni era rimasto orfano. Si chiamava Loreto, Loreto Di Vito, ma tutti lo chiamavano Totò, perché rassomigliava un po' al grande comico napoletano. Faceva il sarto a Capracotta, mio luogo di nascita, che vanta una tradizione antica di sartori e li esporta in tutta Italia: anche Gianni Agnelli lo vestivano i miei compaesani.

Aveva una casetta di proprietà comprata con i suoi risparmi. Stavamo in via Maestro Paglione, proprio sotto piazza Falconi, dove c'era il municipio e il bar Bernardo. La bottega-laboratorio si trovava a piano terra, buia e umidiccia. Quando lavorava, il babbo teneva sempre la radio accesa e lo scaldino in mezzo alle gambe. Cantava pezzi di canzoni in coro con la radio, la voce da tenoretto e l'inflessione dialettale. Mi torna sempre in mente una «casetta in Canadà con vasche pesciolini e tanti fiori di lillà» che veniva incendiata da un certo Pinco Panco.

La capra stava a piano terra accanto alla bottega, dentro un bugigattolo maleodorante. Ma il puzzo lo sopportavo volentieri, perché da lei veniva il buon latte tiepido della mia colazione. Al mattino, appena dopo munta, passava il capraio coi suoi squilli di tromba e la nostra capretta se ne andava a pascolare fino a sera insieme a tutte le altre del paese.

Di fianco alla porta del laboratorio c'era una panca di legno verniciata e due tronchetti di abete cavi con dentro i gerani rossi. Da una scala esterna si saliva nell'appartamento stretto e buio: al primo piano la cucina col camino, al secondo due anguste camere da letto.

Il bagno non lo avevamo proprio e i bisogni bisognava farli all'aria aperta. Oppure, quando il freddo e la neve ti avrebbero congelato chiappe e pendenti, usavamo un secchio che veniva messo dietro al focolare perché il cattivo odore se ne andasse col fumo.

  • M. Rufini, Afa, e/o, Roma 2007, pp. 30-31.

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