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COI BINARI FRA LE NUVOLE

di Riccardo Finelli

E noi, finalmente, vediamo la luce del Molise.

L'umido di cui si è impregnata l'aria anche da questa parte del crinale esalta l'odore selvatico dei boschi. È l'odore con cui la terra da tartufo che stiamo calpestando vuole farsi riconoscere. Tartufo bianco per l'esattezza, che proprio a San Pietro ha una sua Betlemme.

La stazione San Pietro Avellana-Capracotta è davvero a un tiro di schioppo dall'uscita della galleria. Quando ci arriviamo, un cielo blu petrolio, reso fosforescente dal sole accecante, ci fa capire che il peggio, meteorologicamente parlando, potrebbe ancora venire. Ma intanto eleva a potenza ogni colore attorno a noi, come quello dell'intonaco della stazione, che in altri giorni sarebbe stato forse uno scialbo color salmone, ma che oggi esce dall'anonimato con un arancio intenso. Un omaggio della natura a una stazione fra le più gloriose della linea, da anni, come la stragrande maggioranza, impresenziata. Gloriosa per tanti motivi. Uno è proprio sotto la scorza di calce. L'edificio infatti fu raso al suolo dalla furia rabbiosa dell'esercito nazista nell'ottobre 1943, che con mine ed erpice, devastò buona parte del tratto molisano della ferrovia, piazzata proprio a cavallo della linea Gustav.

Quando alla fine degli anni Cinquanta, la stazione venne ricostruita, lo si fece utilizzando i mattoni sfornati della Fornace Santilli, il laterificio che aveva sede proprio lì accanto, distrutto anch'esso dalla ferocia tedesca e da poco riattivato. La rinascita della stazione (il tratto ferroviario Carovilli-Castel di Sangro fu inaugurato dopo la ricostruzione il 9 novembre 1960) si andava così ad incrociare con quella della fornace, da cui uscivano mattoni con inciso il nome del paese: San Pietro Avellana. Mattoni che portavano un pezzo di Molise in tutta Italia proprio grazie alla ferrovia, visto che la fabbrica era collegata alla linea con un binario dedicato. Ai mattoni del posto si aggiunsero le mani del posto: quelle dei tanti operai sanpietresi che lavorarono all'opera. E così quella ricostruzione, che contribuì a rompere un isolamento ferroviario durato diciassette anni, fu l'edificazione di una specie di tempio laico. Un tempio alla libertà dell'uomo e alla conoscenza. Un tempio alla Grande Rete che, nell'Italia del boom economico, non cominciava con www, ma sapeva di nafta e ferro. Una costruzione mitica nella memoria del paese, che inevitabilmente si porta dietro leggende da cantastorie. Come quella dell'ingegnere delle Ferrovie, capo cantiere, talmente preciso da voler controllare tutte le otto facciate di ogni singolo mattone, perché il tempio non ammetteva imperfezioni.

Mentre Stefano scatta qualche foto, mi stravacco sulla panchina sotto la pensilina del marciapiede.

  • R. Finelli, Coi binari fra le nuvole. Cronache dalla Transiberiana d'Italia, Neo, Castel di Sangro 2012.

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