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La filosofia del camminare



Il camminare è tipico dell'uomo meditante, a differenza del correre, che è tipico dell'animale, sia esso preda o predatore, a differenza del marciare, che è tipico dei guerrieri o bellatores (dal latino bellum, cioè guerra) e a differenza dell'arrampicarsi, che è tipico degli uomini e delle donne "in carriera".

Il camminare di cui, dunque, sto parlando si può ritrovare in alcune grandi figure della nostra cultura filosofica, come Socrate che trascorreva gran parte del suo tempo bighellonando per le strade di Atene e come i peripatetici che seguivano Aristotele che passeggiava nel Peripato, il cortile della scuola da lui fondata ad Atene, il Liceo. Proverbiale è, altresì, la puntualità con la quale Immanuel Kant compiva la sua passeggiata a Königsberg, quella città che oggi, dopo le devastazioni del secondo conflitto mondiale, è territorio russo e del suo illustre passato conserva intatta soltanto la lapide posta sulla tomba di Kant, su cui sono incise le famose parole: «Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me» (I. Kant, "Critica della ragion pratica", Laterza, Roma-Bari 1974, p. 197).

Il camminare ha però anche una valenza profondamente religiosa. Basti pensare al Salmo 31 («Io ti voglio istruire, voglio mostrarti la via da percorrere») e al libro dell'Esodo, in cui l'evento fondamentale è il mettersi in cammino verso la Terra Promessa, al quale corrisponde nella vita cristiana la peregrinatio perpetua. Infatti, Cristo «invitava i suoi discepoli a mettersi per strada: lasciare mogli e figli, abbandonare le proprie terre, il proprio commercio, la propria condizione, per camminare, accompagnare, diffondere la buona novella. Camminare è una conversione, una chiamata» (F. Gros, "Andare a piedi. Filosofia del camminare", Garzanti, Milano 2013, p. 111).

Ma il vertice più vertiginoso del camminare lo sperimentò soprattutto il filosofo tedesco Martin Heidegger, il quale nel suo breve scritto intitolato "Der Feldweg" esalta il pensiero che «sempre di nuovo riprende, di tempo in tempo, il suo cammino lungo il viottolo che il sentiero di campagna segue attraverso i campi. In questo modo resta vicino al passo del pensatore come a quello del contadino che, di primo mattino, si avvia alla mietitura» (M. Heidegger, "Il sentiero di campagna", Il Melangolo, Genova 2002, p. 15). Lungo questo viottolo «si danno appuntamento l'esuberante risveglio della primavera e il quieto morire dell'autunno, si adocchiano l'un l'altro il giuoco della giovinezza e la saggezza della maturità. Tuttavia, in un accordo unico, la cui eco il sentiero porta qua e là silenziosamente, tutto è rasserenato. La saggia serenità è una porta verso l'Eterno» (Op. cit., p. 25).

L'insegnamento heideggeriano ha altresì il merito di coniugare il camminare con l'errare, perché in un'altra sua opera, più voluminosa, intitolata "Holzwege", egli parla della stupefacente intimità dell'uno con l'altro verbo: «Holz è un'antica parola per dire bosco. Nel bosco [Holz] ci sono sentieri [Wege] che, sovente ricoperti di erbe, si interrompono improvvisamente nel fitto. Si chiamano Holzwege. Ognuno di essi procede per suo conto, ma nel medesimo bosco. L'uno sembra sovente l'altro: ma sembra soltanto. Legnaioli e guardaboschi li conoscono bene. Essi sanno che cosa significa "trovarsi su un sentiero che, interrompendosi, svia" [auf einem Holzweg zu sein]» (M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1982, p. 1). Avrebbe potuto scrivere queste cose meravigliose Martin Heidegger se non avesse avuto la passione di fare lunghe passeggiate nel fitto della Foresta Nera e se non avesse trascorso gran parte del suo tempo in una baita di montagna?

Dalle sue parole e dai suoi comportamenti deduciamo che non c'è cammino che in qualche modo non svii, così come non c'è sviamento che in qualche modo non ci riavvii su un cammino di verità e speranza. L'importante è essere sensibili alle pro-vocazioni cioè ai richiami visivi, sonori e olfattivi della natura, attenti al paesaggio artistico, flessibili nei confronti dei cambiamenti epocali, schivando gli estremi opposti dell'eccesso e del difetto, perché in medio stat virtus. Infatti, camminare in un eccesso di luce o in assenza totale di luce può essere esiziale, mentre nell'aurora e nel crepuscolo il cammino, come il meditare, è certamente più salutare.

Insomma, camminare e pensare sono le due facce di una stessa medaglia alla cui conquista è d'uopo mirare se non si vuole diventare quel "sedere di pietra" che Nietzsche considerava come «il vero peccato contro lo Spirito Santo» (F. Nietzsche, "Ecce homo", Adelphi, Milano 2000, p. 37).

A questo punto sorge spontanea la domanda: che cosa c'entra tutto questo con Capracotta? C'entra, perché a Capracotta si viene, soprattutto, per camminare e chi vi risiede tutto l'anno non può fare a meno di camminare, per diletto o per lavoro. La storia stessa di Capracotta, con i suoi alti e bassi, può essere, infine, interpretata come un cammino di fede, destinato a procedere, ce lo auguriamo tutti, di generazione in generazione.


Aldo Simone

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