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Lontano, tanto tempo fa (I)


La famiglia Di Tella in Argentina nel 1905.

Il villaggio di Capracotta, adagiato in cima all'Appennino, negli Abruzzi, all'estremo nord del Regno di Napoli, a metà dell'Ottocento era dimenticato dal mondo e di esso si dimenticava. Le sue poche centinaia di abitanti si dedicavano alla cura delle pecore, portandole al pascolo invernale nel più temperato Tavoliere delle Puglie, così come facevano da tempo immemorabile gli antenati Sanniti. La prima cosa che imparavano quei pochi ragazzi che andavano a scuola era la batosta che avevano inferto a due eserciti romani, facendo loro subire l'infamia di passare sotto le Forche Caudine, una specie di bassa porta da calcio, per attraversare la quale gli invincibili dovettero inchinarsi al capotribù. In realtà, più tardi arrivò un terzo esercito romano, ma quello che accadde allora lo sapevano solo i seminaristi.

Per i capracottesi non c'era cosa peggiore, dopo i Romani, di quelli di Agnone, una cittadina che, nelle belle giornate, si vedeva dalla cima della montagna e che era in competizione, con vantaggio, su tutto. Molto più lontano, nella favolosa Napoli, regnavano i Borboni, grandi signori che parlavano - e regnavano - da lazzaroni.

Napoli era una delle città più popolose d'Europa ma allo stesso tempo una delle più povere, con un gran numero di lavoratori marginali, non qualificati e cronicamente sottoccupati, chiamati lazzari o lazzaroni. Questa classe, tipica di certi grandi centri urbani preindustriali, formava una folla ribelle che poteva essere domata soltanto col terrore, con le ampolle di san Gennaro e con la demagogica prodigalità della dinastia regnante. Ferdinando IV (1759-1806), che dovette resistere agli assalti della Rivoluzione francese con l'aiuto del celebre sanguinario cardinale Ruffo, fu chiamato «il re lazzarone» forse proprio per la scarsa passione per il lavoro o per il modo in cui parlava il dialetto locale.

Nonostante ciò, la gente comune idolatrava la monarchia e i preti, diffidava della borghesia e odiava i baroni, considerati una piaga molto estesa in quel Paese. Il Regno di Napoli possedeva infatti la più numerosa, sfruttatrice e rovinosa nobiltà, comprendente centinaia di principi che generavano una vera e propria inflazione di status, la parte centrale del sistema di governo dell'epoca.

A Capracotta, naturalmente, c'erano parecchi membri di quella nobiltà, vere e proprie teste di topo [dal detto popolare «más vale ser cabeza de ratón que cola de león», N.d.T.], che la gente chiamava 'amme còtte (gambe cotte), perché avevano le gambe arrossate per aver trascorso l'inverno senza lavorare, davanti ai camini delle loro case. Uno di questi era l'ultimo Barone di Sessano, Giuseppe Tomaso Di Tella (sposato con una cugina, Teresa Di Tella) che, pur possedendo ancora una solida casa in pietra «piena di ogni ben di Dio» e terra e pecore, aveva visto diminuire il suo patrimonio. I tempi non erano buoni e, per sopravvivere, aveva ingoiato l'orgoglio e aveva fatto un po' di commerci, importando pesce dalla costa. Ma le cose stavano peggiorando e, guardando i suoi tre figli ancora adolescenti Salvatore, Amato Nicola e Cesareo, spesso si lamentava: «Ah, questi fottuti baroni!». Fece entrare nel convento francescano il primogenito, Salvatore (nato nel 1841), dove sarebbe morto di freddo ma perlomeno avrebbe avuto salva l'anima e avrebbe pregato per la famiglia. Gli altri due lo avrebbero aiutato a commerciare il pesce con pastori, braccianti e qualche mezzadro che viveva ancora sulla sua terra.

Per aggiungere al danno la beffa, le guerre che già contrapponevano gli italiani gli uni contro gli altri e, al Nord, contro gli Austriaci, ben oltre le terre del pontefice, arrivarono pure al Sud, per mano dei "rossi" guidati da Giuseppe Garibaldi. Era il terribile anno 1860 quando caddero i Borboni e nessuno osava più mostrare le proprie credenziali di nobiltà. I lealisti resistettero un po' e, proprio a Capracotta, si tentò di impedire l'insediamento delle nuove autorità attraverso una mobilitazione del basso popolo istigata da alcuni preti, nel miglior stile dell'Ancien Régime meridionale. In questo movimento popolare borbonico si distinse Pasquale Sozio, proveniente da una nota famiglia del luogo, sebbene suo cugino Agostino fosse un esponente liberale. Ben presto tornò la calma anche se alcuni dovettero togliere il "Di" dal proprio cognome per non essere accusati di essere poco progressisti. Tuttavia per il Barone non ci sarebbero più stati giorni di felicità.

Salvatore, che era giovanissimo ed era appena entrato in convento in un paese vicino, rimase così senza destino, perché i garibaldini avevano dissolto tutte le vecchie strutture dell'Ancien Régime. Non aveva altra scelta se non arruolarsi nell'esercito, spazzolare i cavalli e subire lo scherno dei soldati più anziani. Lì incontrò un amico di famiglia il quale, sorpreso nel vedere il figlio del Barone ridotto in quelle condizioni, informò il capo del corpo militare, il quale lo promosse subito caporale, e da allora cominciò una carriera militare che gli valse alla fine il grado di furiere maggiore, una medaglia e la possibilità di conoscere il mondo, cioè Milano.

Passarono oltre quindici anni e, alla fine degli anni Settanta, il cuore del Barone smise di battere, lasciando i suoi figli a cavarsela da soli. Amato Nicola e Cesareo richiamarono il brillante e mondano ex francescano, il quale sacrificò la carriera militare per dedicarsi alla cura degli interessi nella terra natia. Salvatore aveva addentato l'albero della modernità e aveva persino litigato con alcuni ufficiali di famiglia aristocratica, i quali sicuramente lo disprezzavano in quanto terrone, non sospettando che anch'egli appartenesse al primo ceto, sia pure ai ranghi inferiori. Tornò, comunque, con l'idea di rivoluzionare il suo paesino introducendo una meraviglia tecnologica, un mulino con macchine moderne in grado di competere con quelli antichi della zona, ancora monopolizzata da quel che restava della nobiltà.


La S.I.A.M. Di Tella di Avellaneda.

Le ultime risorse furono investite in questa avventura e, quando tutto era pronto, al momento dell'inaugurazione, mani anonime si presero la responsabilità di non far funzionare nulla. Il vecchio ordine si era vendicato dell'intruso - almeno così racconta la tradizione di famiglia, per bocca di una delle sue nipoti, Bianca. È anche possibile che non avessero calcolato correttamente il flusso di cassa. Fatto sta che dovettero svendere tutto e assistere all'obbrobrio di un'altra famiglia importante del luogo che, preso il mulino, lo fece finalmente funzionare. Questo è ciò che dice la storia ufficiale, condensata in un libro pubblicato localmente che ripete, ovviamente, la versione dei vincitori, secondo cui «si ottiene più successo con uno sforzo persistente che con un grande entusiasmo iniziale». Era dunque meglio andarsene, dimenticare tutto - o conservarlo per dopo - e cercare fortuna altrove. In America, ovviamente, più precisamente in Argentina, dove un cugino, Carmine Di Tella, era già affermato come gioielliere e se la cavava bene.


Torcuato Salvador Di Tella

(trad. di Francesco Mendozzi)


 

Fonte: T. S. Di Tella, Torcuato Di Tella. Industria y política, Tesis, Buenos Aires 1993.

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