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Papà Culì


Nicola D'Andrea
Nicola D'Andrea (1886-1973) con un commilitone.

Papà Culì!... Papà Culì!!... Papà Culì!!!

Per oltre dieci anni, fino al 1973, chiamavo così per il pranzo e per la cena, mio nonno del ramo paterno, affinché lasciasse le sue occupazioni e venisse a tavola.

Era uno dei miei piccoli compiti, assegnatomi da mia madre Peppina e zia Elena, che intanto mettevano il cibo nei piatti.

Come un piccolo muezzin domestico, mi accingevo con gioia e un po' di imbarazzo a questo che per me era uno strano gioco venutosi a creare quasi da sé, imbarazzo perché dovevo calibrare il tono.

In un crescendo rossiniano partivo con un tono basso, aspettavo una sua risposta che non arrivava, anche perché gli si era ridotto l'udito, ma ci speravo sempre, perché mia madre e mia zia tendevano ad avere mal di testa e dovevo evitare toni forti.

Dopo alcuni secondi ripartivo con tono maggiore e aspettavo, invano, così dovevo dare sfogo a tutto il fiato che avevo.

«Papà Culì» diventava allora un urlo dalla savana, scandito e squillante, e così accadeva che ricevevo una doppia risposta in simultanea: da una parte mio nonno Nicola che urlava spiazzato: «Ohé», suono che sembrava uscire dall'oltretomba o da una caverna (di solito era intento a leggere o scrivere poesie e talvolta si addormentava); d’altra parte mia madre e zia Elena quasi mi sgridavano, stizzite: «Ma è modo di chiamarlo e d'alleccuà a ssa manèra?».

E allora mi mettevo a ridere tra me e me perché altrimenti si sarebbe innescata una discussione sul perché non fossi andato a chiamarlo in camera con gentilezza.

Ma tant'è... avevo preso quell'abitudine da galletto monello e mi piaceva farlo, soprattutto nei 3-4 mesi, da giugno a settembre, che ero a Capracotta.

Dal primo piano, affacciato alla ringhiera della tromba delle scale, lo chiamavo, proprio come un muezzin (anche se allora neanche sapevo della loro esistenza), a lui che era nel suo stanzino, intento negli ultimi anni a leggere e scrivere. Negli anni precedenti papà Culìtte era invece impegnato nei lavori di falegnameria e, nonostante non avesse macchinari elettrici, il mio richiamo era tuttavia coperto dai rumori.

Ma chi era papà Culìtte? Cosa è stato per me?

Da parte mia non posso far altro che raccontarlo così come l'ho vissuto nei vent'anni che l'ho conosciuto, riflessioni che ho fatto di volta in volta su di lui mentre crescevo e ascoltavo i commenti di mia madre e mia zia che si prendevano cura anche di lui, commenti di donne a cui solitamente non si dava retta, al contrario mio, che ne avevo preso coscienza.

Su papà Culìtte accumulavo notizie sia dall'interno delle mura domestiche che dall'esterno: parenti, vicini e conoscenti che ne lodavano la creatività - o, meglio, la genialità - e la coerenza.

Questo lavorio mi ha accompagnato per anni, un'attività di archeologia familiare alla ricerca delle mie radici e degli insegnamenti che ho tratto, un gioco che suggerisco a chiunque per essere sempre più consapevole di sé.


Antonio D'Andrea

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