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SIGNORINA ALLERGIA

di Chiara Gamberale (1977)

Io davo moltissimi problemi ai miei genitori. Se ridevo troppo mi prendeva un attacco d'asma, se piangevo mi prendevano i crampi allo stomaco, se a scuola giravano i pidocchi o il morbillo, per la mia testa correvano inevitabilmente più pidocchi rispetto a quella degli altri bambini, sulla mia pelle più bollicine. Se faceva troppo caldo mi riempivo di chiazze fucsia, se faceva troppo freddo una stretta mi afferrava subito i bronchi. Ma, soprattutto, ero allergica a tutto: alla polvere, al latte, al polline, alle graminacee, al pelo dei cani, al fumo delle sigarette, al pomodoro. 
– Ma questa non è una bambina, è un'epidemia! – Diceva senza dire niente mio padre a mia madre. 
– Ci credo, è figlia tua. – Ribatteva senza ribattere niente mia madre a mio padre. 

Mio fratello, al contrario, non dava problemi a nessuno.

Si chiama Teodoro, è morto che aveva due anni.

Dopo dieci mesi sono nata io, inutilmente: nel senso che mia mamma avrebbe continuato a comportarsi come se avesse solo un figlio di cui andare orgogliosa e per cui avesse davvero senso preoccuparsi.

Lo dico senza astio, credetemi: io per prima ho sempre avuto un debole per lui, rispetto a me. Mi faceva innervosire a volte, lo ammetto. Ma tra fratelli capita, no?

Dormivamo insieme, ve l'ho detto. Quando la mamma veniva a svegliarci per andare a scuola, era per lui, io lo sapevo benissimo, che bussava prima piano e poi forte alla porta della nostra camera, per lui che spremeva le arance, tostava il pane e si sforzava di sorridere, prima che uscissimo di casa.

Avete presente un gatto, se sapesse lamentarsi? Così era mia mamma. Con gli occhi lunghi, color birra, i movimenti veloci, felpati. Da gatto, appunto, come se quella in cui si muoveva, da cui usciva solo per fare la spesa, fosse casualmente casa sua. E aveva questo impellente bisogno di comunicare agli altri quello che le mancava.

Cioè tutto.

Capracotta, il paese vicino a Isernia dove lei e mio padre erano nati, cresciuti e vissuti, prima che mio padre fosse trasferito a Roma dalla ditta di confetti per cui lavorava.

– Bastava aprire le finestre, guardare le montagne e il mondo pareva bello!

Il mare, anche se non l'aveva mai visto.

– Ci fosse almeno una spiaggia in questo schifo di città, dove potersi ogni tanto distendere e poi fare un tuffo.

I soldi.

– Per che cosa ci siamo dovuti trasferire? Per settantamila lire in più al mese. Che tanto tuo padre usa tutti per le sue puttane.

Un lavoro.

– Mica ero scema io, da ragazza. In matematica ero davvero brava, sai. Ma all'ultimo anno di superiori ho conosciuto tuo padre e sono finiti i sogni. È cominciata la vita, se si può chiamare così questa che m'è toccata.

Un uomo. Che però non fosse mio padre.

  • W. Siti (a cura di), Granta Italia, vol. VI, Rizzoli, Milano 2015, pp. 76-77.

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