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HO FIRMATO LA RESA DI ROMA

di Leandro Giaccone

Per indicare una nuova condizione umana, avevano coniato una nuova parola: scappaticcio. Forse per togliere alla radice scappare ogni contenuto di fuga vile, lo scappato termina in iccio, il piccolo uomo singolo, debole, indifeso, un poveraccio in pericolo. Giù nel paese vicino erano affissi i manifesti che comminavano pene severe a chi dava aiuto e rifugio a prigionieri di guerra, a traditori badogliani; e promettevano premi sostanziosi a chi ne avesse segnalato la presenza ai comandi tedeschi.

Rispondevamo di sì, che eravamo scappaticci. Non facevano altre domande; c'invitavano ad entrare in casa, dividevano con noi la loro povera cena, e ci preparavano un giaciglio per la notte. Tutto si svolgeva come un complice rito ancestrale divenuto istintivo perché da millenni l'ospite è sacro; era sempre difficile, al mattino, prima della partenza, far accettare un po' di denaro.

Tra i più poveri contadini della più povera regione italiana, anche se odio le frasi fatte e non credo ai luoghi comuni, sono stato costretto a convincermi che la nostra gente è veramente antica.

Nei pressi di Capracotta ci fermammo parecchi giorni in montagna, riparandoci nei fienili e nelle grotte, perché la zona era infestata da consistenti truppe tedesche. Trovammo poi un boscaiolo che di notte ci guidò per un sentiero sicuro; proseguimmo il cammino ed arrivammo a Trivento, una vecchia cittadina in cima ad una montagna che scende ripida verso la valle del fiume Trigno.

  • L. Giaccone, Ho firmato la resa di Roma. 10 settembre 1943, ore 15:20, Cavallotti, Milano 1973, p. 188.

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