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MOSCHE

di Raffaele Castelli (1951)

Perciò sputò, sei o sette volte e mentre Argo se n'era andato sconsolato e a testa bassa che nemmeno aveva voglia di strappare carni umane così, all'improvviso e senza reazione appropriata. E quella, la cacca delle pecorelle, fu scagliata lontano con il getto. Poi ebbe, lo zio, alcuni fazzoletti di carta da parte di Caterina, si pulì le labbra, si lamentò abbondantemente e ricevette le prime cure dalla dottoressa.

– Non è niente – sentenziò la stessa, quando ebbe terminata la visita, che quello dovette calarsi i pantaloni per la cosa. E fu visto tutto. Nelle parti intime, con un pizzico di vergogna. Per i due uomini presenti.

– Ma il sangue? – lui a terra ancora. Prima inginocchiato poi sdraiato sul retro.

– È solo un graffio, quattro a ben vedere, ma superficiale e meno male.

– L'antirabbica?!  se ne intendeva di soluzioni chimiche.

– A Capracotta...

Fu allora che quello dal basso gridò. E ripetette circa nove volte che era pronta. Ma che cosa?

– La pecora... è cotta... venite... offro io! – e ci mancherebbe altro che avessero anche dovuto pagare, pensò Ernesto. La risposta che non disse.

– Ma sarà buona? – Crispin che aveva una fame da lupetto e stava anche assaporando quell'odore di cucina da un bel pezzo, anche da prima che lo zio ricevesse il timbro per onn disperdersi nell'amviente e far parte del gregge.

– L'antirabbica... – il danneggiato.

– Dopo, dopo... – e tutti corsero lasciando il soggetto al suo destino. Che non era niente ed è inutile che si fanno tante mosse, del tipo di chi vuole per forza affetto e attenzione.

Ecco, che non si fece in tempo a dire o a riflettere che cadde, scivolò, su una cacca di mucca, la Caterina, e chi sennò. E si bagnò, sarebbe stato meglio dire si oscurò il proprio, di sedere. Giacché si era accovacciata con il medesimo sulla pizza e ne aveva prelevato una buona parte prima di scendere dal pecoraio.

– Oh... non è niente! – le fece quello. Ma lei non poté ribattere e mandarlo al diavolo, giacché era lo stesso pane che aveva offerto allo zio, due minuti prima. O no?

– Sì... – perciò rispose e si strusciò abbondantemente sull'erba folta, tanto che ci furono belati di disapprovazione e quindi continuò con gli stessi fazzoletti che aveva dato al naufrago.

– In montagna è tutta roba genuina – aggiunse il guardiano del gregge e aveva ragione.

Non puzzava nulla, quasi che avessi potuto mangiare ogni cosa. Ma sempre con una certa attenzione. Persino quella pecora cotta lessa, in acqua e dentro un pentolone che sarebbe bastato per cento di questi giorni, come osservò ancora lui, di Capracotta da generazioni. E sorrise, con i cani calmi a mangiare ossi e nervi.

–Solo un assaggio – fu il commento di Ernesto che amava l'avventura, ma quando era troppo, era troppo. Come osservò con gli occhi, alzando le sopracciglia alla volta dello zio, giunto nei pressi lento e non convinto della questione della pecora cotta.

  • R. Castelli, Mosche. Uno, Nessuno, e oltre diciassette milioni di euro, Lampi di Stampa, Milano 2010, pp. 244-245.

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