top of page

Il mio Iaco



Non sappiamo bene cosa sia rimasto di quel giorno di febbraio.

Da qui, dall'anno duemila-diciotto, non sembra chiara la trasmissione delle immagini.

Alcuni sono troppo giovani, e comunque per molti la visione dei ricordi appare sfocata, sbiadita, proprio come una foto vecchia di quaranta anni fa, quando gli scatti venivano fatti con macchine che oggi apparirebbero improponibili.

E poi c'era la stampa delle foto, la camera oscura, e fuori da quelle luci rosse e dalla puzza degli acidi di sviluppo la società sembrava vivere una improvvisa modernità che faceva ancora i conti con la polvere e l'austerità di un passato di stenti.

In quei tempi Taranto profumava di far west, e proprio come nella conquista quotidiana di una frontiera, la città si trasformava di giorno in giorno. Cresceva Taranto, mutava a vista d'occhio, e lo faceva incoscientemente vivendo l'illusorio miraggio di un futuro di prosperità sintetica. Operai, impiegati e marinai si affannavano nel traffico di uno stabilimento, diretti in arsenale, indaffarati nelle caserme.

Il ricordo è sbiadito, sfocato, ma quello che invece è rimasto cristallino è l’impatto con il senso frustrante degli eventi avversi, e forse solo per questo motivo qualcuno ricorderà il sapore più amaro del caffè di quel mattino del sei febbraio, quando si apprese la notizia.

Erasmo non era una semplice persona: da qui, dal duemila-diciotto, è ancora più chiara la sua figura-simbolo.

Certamente era una persona semplice, ma questo era un dettaglio del suo intimo, un elemento che segna il limite del privato, e che qui non compete.

Una persona semplice, dunque, ma non semplicemente una persona.

È stato un condottiero vestito da calciatore, un uomo che ha profondamente incarnato il destino di una città intera, una città che lo ha adottato in un rapporto intimo, come uno sposo, un compagno di vita.

Il suo passaggio è stato tristemente profetico, annunciato dalla combinazione degli eventi, dal momento storico di una città e dal destino amaro di una notte.

Lui ha sposato la città, ne è diventato compagno di vita, assumendo spontaneamente parte del suo intimo urbanistico: è nei suoi occhi buoni e su quel volto che si staglia il fervore di quei giorni, il traffico per le strade, il mare di cristallo che brilla sotto i riflessi del sole.

Era una città laboriosa, Taranto, in quei giorni.

Era una città che si riscopriva improvvisamente ricca e importante. Il fervore economico, culturale, demografico, urbanistico, sembravano fenomeni inarrestabili. C'era l'effetto esponenziale di una serie di moltiplicatori che interagivano tra di loro e amplificavano di anno in anno l’importanza del capoluogo, lasciando credere a tutti che Taranto avesse una voce giovane e forte, capace di urlare il riscatto di un sud che improvvisamente parlava al resto di Italia in maniera insolente e autorevole.

Era una città dai connotati impertinenti, irruenti, implacabili, tutti effetti di un fermento che non poteva restare sopito, una rincorsa che nessun muretto a secco avrebbe mai arrestato.

Erasmo, si diceva, indossando quella maglietta non rappresentò solo il simbolo di una città in crescita.

Egli incarnò quello stesso fervore, quella stessa esplosione incorreggibile che Taranto viveva con entusiasmo, con lo stesso entusiasmo con cui il pubblico esultava al vedere i suoi stacchi dal suolo.

Uno stadio senza nome, un destino segnato, la pioggia battente.

È stata lei, la pioggia, la compagna dei tanti momenti tristi del calcio di città. La pioggia, come un pianto, ha bagnato cento, mille volte, le guance di Taranto, e cento, mille altre volte ancora ci ritrovammo ad annaspare nella sofferenza di quelle gocce, senza però mai annegarvi.

Anche quel giorno pioveva, e fu in quel giorno che quello stadio senza nome, bagnato da tutta quell’acqua, come in un rituale sacramentale, ricevette il suo battesimo.

E come in ogni battesimo, quello stadio ricevette in dote un nome, il nome di Erasmo Iacovone.

Beffarda coincidenza di eventi: un uomo nel destino di uno stadio.

Nel funerale, il battesimo.

Nella fine, l'inizio.

Era scritto nel Cielo il nome di Erasmo Iacovone da Capracotta, eroe di Taranto.

Passeggiando intorno allo stadio, nel silenzio interrotto dai rumori urbani della Salinella, la senti ancora la sua voce che, dal lontano di quel giorno di febbraio del millenovecento-settantotto, filtrando attraverso i baffi parla e dice:

– Io sono rimasto qui. Resto ad aspettare.

E Taranto, che ha conosciuto ancora una volta il senso dell'irrisolto, come è successo centinaia di altre volte ancora nella sua storia millenaria, come accade ancora oggi, come è stato da sempre e fino ad ora nel nostro destino, ha un cuore che continua a pulsare a dispetto di tutto il male sopportato.

E come quel giorno, lui è rimasto lì ad aspettare a dispetto di quella Citroën accartocciata, a dispetto di quel sogno irrealizzato, di quel senso di incompiuto che pervase gli animi dei tarantini dalla domenica di Rimini in poi.

– ...io resto qui, ad aspettare. A dare un senso all'inespresso destino del Taranto. Io resto qui. Ad aspettare...

Per noi, tifosi del Taranto, Erasmo è una specie di semidio, una figura che è uscita dal campo ed è entrata nella mitologia, una sagoma indelebile, una profezia fatta centravanti, la chiave di lettura di tutta la nostra storia calcistica.

Oltre i dolori personali, lui è la promessa incarnata.

La pioggia, quel giorno, ha bagnato quel campo e la città intera.

Erasmo non è stato semplicemente un uomo.

È il numero nove.

Quando quelle maglie annasperanno in un campo intriso di fango, nel recupero di una finale triste che perderemo per qualche altro dannato imprevisto del destino, sugli sviluppi di un calcio d'angolo, allora, in quel momento pronunciatelo il nome di Erasmo Iacovone, chiamatelo sottovoce... gonfiate il petto allo scandire di quelle otto lettere, perché per noi, tifosi del Taranto, lui è l'unica bandiera, ed è tutto lì: uno stadio, la storia (ancora), incompiuta di una città, il suo eroe!


IACOVONEVIVE


Alessio Blasi

 

Fonte: http://www.fondazionetaras.it/, 9 febbraio 2018.

bottom of page