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Mio nonno sì che c'era


Ernest Hemingway (1899-1961) ferito durante la Grande Guerra.

Mercoledì, 24 ottobre 1917, Giacomo (detto Berto) Ghirardini, mio nonno, si trovava nella pianura friulana, autista di ambulanza, imbottigliato nel caos immane della ritirata, come Frederic Henry, il protagonista del romanzo "Addio alle armi": entrambi alla guida di un Fiat 18BL, il cavallo da tiro della logistica italiana, entrambi persi nel dedalo degli ingorghi fra Gorizia e Udine, travolti dalla fiumana dei profughi e dei soldati sbandati. Ora non so dirvi se il cappellano di mio nonno fosse di Capracotta come quello ritratto da Hemingway, o se l'ufficiale medico somigliasse al De Sica della versione cinematografica di Vidor del 1957, ma la Caporetto che mi ha raccontato lo inquadra come una inconsapevole comparsa fra i personaggi di "A Farewell to Arms": stesso corpo, identica località dell'accasermamento, fedelissima ricostruzione dell'ospedale da campo avanzato, medesima ignara vita nelle retrovie prima della catastrofe, eguale incoerenza generale il giorno nero della catastrofe.

Chi non era a Caporetto quel giorno, era proprio colui che ne avrebbe dipinto il più famoso affresco letterario - il miglior pezzo di prosa «scritto da quando esiste la lingua inglese», secondo lo scrittore John Dos Passos, pure lui volontario sul fronte italiano come conduttore di ambulanze: il 24 ottobre 1917, Ernest Hemingway era nella redazione del Kansas City Star, ove appena una settimana prima aveva iniziato il suo apprendistato di cronista, diciottenne come mio nonno, nati entrambi nel 1899.

 

Un bel ragazzo fiero e paffuto

Ho una fotografia di mio nonno sul fronte del Piave, agli inizi dell'estate del 1918. La stampa color seppia lo ritrae in un'uniforme impeccabile, posa da Francesco Baracca, nel bel giardino della villa di Oderzo adibita ad alloggiamento per il personale medico e per gli autieri del reparto, un ragazzo ben piantato, volto fiero ma dalla paffutezza irrimediabilmente adolescenziale: l'ho mostrata a mio figlio Giorgio che, sbalordito, ha sbottato «è uguale a Stella», la sorella, che ha il mio taglio d'occhi malinconico e balcanico, lo stesso di mio padre e di mio nonno. La dedica è per il fratello Ennio.

A dispetto però delle apparenze, il Giacomo Ghirardini che incrocia Ernest Hemingway nel giugno 1918 sul Piave, è un'altra persona rispetto al "ragazzo del '99", sbalestrato fra due armate in rotta e un milione di civili in fuga. Proprio in conseguenza alla ritirata di Caporetto è stato inviato sul fronte di Asiago dove, fra il novembre e il dicembre 1917, conosce l'orrore della battaglia delle Melette, facendo quotidianamente la spola da Schio su, fino alle linee arretrate di resistenza sugli Altipiani, con il suo fedele autocarro Fiat 18BL, carico di granate all'andata, stracarico di feriti al ritorno - il camion ha le gomme piene e ad ogni inevitabile sobbalzo gli agonizzanti emettono gemiti strazianti. Lui è un "vecchio" quando Hemingway arriva sul fronte italiano nella prima decade di giugno 1918 con la Section Four della Croce Rossa Americana a Monastier, vicino a Treviso, presso Casa Botter dove il corpo dei volontari americani ha allestito un posto di ristoro per i soldati, oasi delle retrovie, frequentata la sera da mio nonno e dai suoi commilitoni autieri al ritorno dalle loro estenuanti corvée quotidiane.

Hemingway a dispetto delle spalle larghe, è un ragazzo che non riempie l'uniforme: la foto lo ritrae immusonito al posto di guida di un'ambulanza - non gliene faranno mai guidare una, farà invece l'inserviente alla cantina di Casa Botter. È in queste serate di giugno che mio nonno e i suoi compagni siedono a mangiare e a bere con i «nuovi arrivi» americani ed Ernest Hemingway, ansiosi di partecipare a uno dei più grandi eventi della storia: si intendono alla meno peggio, ma la stampa americana ha ritratto il fronte italiano come quello più «romantico» della guerra e vogliono sapere tutto, dell'epopea di Caporetto soprattutto - e non mi stupirei che buona parte del materiale servito per la successiva scrittura di "Addio alle armi", sia consistito in queste testimonianze raccolte di prima mano dal giovane Hemingway.

Sono invece sicuro che, in un successivo racconto breve, Hemingway racconti una vicenda accaduta a mio nonno. Una missione di trasporto degli arditi di notte al fronte, per una delle loro incursioni nelle trincee nemiche, con pugnali e bombe a mano, ubriachi e fatti di benzedrina: il particolare coincidente è che al loro ritorno, ancora eccitati e fuori di testa, hanno tagliuzzato la tela del camion a strisce e gli hanno quasi demolito l'amato Fiat 18BL. Mio nonno era ancora incazzato e disgustato, mezzo secolo dopo, quando me l'ha raccontato.

 

«Quello della cioccolata»

Del resto Ernest Hemingway fa di tutto per vedere la guerra, ogni scusa è buona per inforcare una bicicletta da bersagliere e partire per le prime linee sul Piave col pretesto di consegnare ai soldati al fronte la posta, le sigarette e ogni genere di conforto - cioccolata in particolare, era «quello della cioccolata». Ma durerà poco: l'8 luglio 1918 una granata austriaca lo ferisce a Fossalta di Piave, in località "Buso de Burato".

Il 14 luglio arriva a Milano all'ospedale della Croce Rossa, dove dovrà sottoporsi ad una dozzina di operazioni chirurgiche per estrarre un paio di centinaia di schegge penetrate nella gamba. Si innamorerà naturalmente di una infermiera, Agnes von Kurowsky, primo grande amore, ovviamente non contraccambiato, del futuro gigante della letteratura contemporanea. Non c'è il minimo dubbio che questa signorina, riluttante nel prendere sul serio le profferte amorose del futuro scrittore, abbia ispirato il personaggio, coprotagonista in "Addio alle armi", dell'infermiera Catherine Barkley, amante del conducente di ambulanze Frederic Henry che, come Hemingway, sarà ferito al ginocchio e portato a Milano, ma che, diversamente da Hemingway, conduceva le ambulanze e a Caporetto c'era stato. Esattamente come mio nonno.


Pier Giacomo Ghirardini

 

Fonte: P. G. Ghirardini, Mio nonno sì che c'era (altro che Hemingway), in «Tempi», Milano, 25 ottobre 2017.

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