La storia del Sannio deve chiedersi dai monumenti, e per nostra ventura le terre di questa regione, massime nei siti più reconditi e montuosi, ne sono ricche più di quel che si crede, né lasciano mai senza compenso chi si faccia a ricercarle. Una prova sufficiente di questa verità si rinviene nelle varie scoperte che mi è avvenuto di fare nel breve giro di alcuni anni in Pietrabbondante e suoi dintorni: ed una più recente ne porge la bella e veramente singolare iscrizione in bronzo che mi accingo a descrivere. Se niente altro si fosse trovato in Agnone, mia patria, basterebbe questo solo monumento ad assicurarle un posto distinto nella topografia del Sannio; ben altre cose possono ammirarsi in queste vicinanze: le quali, debbo dirlo quasi con rossore, erano rimaste infino a questi giorni affatto dimenticate. Tali sono i residui di una città sannitica, intorno al cui nome dirò più innanzi le mie congetture, e quelli di un sacro edificio della stessa data con antro probabilmente fatidico, de' quali non si trova alcun ricordo nella storia e nella stessa tradizione. Ognuna di queste nuove scoperte vorrebbe un lungo discorso; ma per non farle rimanere più oltre ignote ai dotti, e perché intimamente collegate fra loro, ho stimato opportuno di comprenderle tutte in una medesima succinta relazione, riserbandomi di parlarne distintamente e più al minuto altra volta.
L'accennata iscrizione sta incisa a bulino in ambedue le facce di una tavola di bronzo alta 9 pollici in circa, larga 5 pollici. La sua parte superiore è guernita di maniglia anche di bronzo, da cui pende una catena di tre grossi anelli di ferro ossidato portante all'estremità un come arpione dello stesso metallo. Incomparabile ne è la conservazione e solo vedesi alcun poco macchiata di ruggine nella 26° linea. Si rinvenne in marzo ultimo, giacente alla profondità di nove palmi, tramezzo a due grandi massi riquadrati, nel cavarsi un fosso per riporvi le pietre di una vicina maceria in un terreno posto in su i confini di Agnone e Capracotta, circa tre miglia distante dal primo di questi Comuni verso settentrione, e quasi altrettanto dal secondo. Chiamasi quel luogo Fonte del romito da una sorgente che vi è di tal nome, le cui acque limpide e freschissime crescono talvolta oltre il costume e formano il torrente detto di S. Quirico. Alcune ceppaie di alberi di cerro rimastivi qua e là fan supporre che anticamente vi fosse un cerreto. Quasi nel centro del masso di sotto vedeasi un incavo circolare, entro cui si rinvenne conficcato l'arpione sopraddetto, il quale deve credersi di origine vi stesse fermato con piombo. Accosto a tali massi si scoperse porzione di muro costrutto di pietre egualmente riquadrate unite insieme con calcina. La sua grossezza è di circa palmi sei; onde pare che appartenesse a qualche grandioso edificio, che da molti indizi ed in ispecie dal soggetto del nostro bronzo risulta dover essere un tempio, nel cui recinto doveva stare sospeso da un muro a tutti cospicuo il bronzo medesimo. Il che era solito farsi dagli antichi pe' monumenti di maggior rilievo.
Fra gli oggetti tornati a luce all'occasione di tale scavo, in mezzo a mattoni e rottami di fabbriche antiche, sono degni di speciale menzione tre monete d'argento e quindici di rame. Delle prime una certamente consolare venne tosto esitata; l'altra pure consolare è il denario della famiglia Antestia col cane nel dritto, e la terza monetina di tanto contrastata spiegazione con delfino, grano d'orzo, conchiglia e la scritta fistluis nel rovescio. Quelle di rame, all'infuori di una di Sessa col gallo e di un semisse logoro che appella ad asse onciale, sono tutte imperiali romane, cioè quattro di Augusto, due di Tiberio, una di Germanico, tre di Claudio, due illeggibili d'imperatrici ed una di Nerone. Dal che si deduce che l'edificio testè accennato fu in essere anche nel primo secolo dell'era cristiana. Si trovarono pure due vasettini ed uno scifo o scodellina fittili che vennero smarriti e dispersi per incuria dell'ignorante scopritore, e in fine due fistule acquarie d'argilla e cinquanta chiodi di ferro ossidato più o meno grandi, fra i quali ve n'ha alcuni piegati ad angolo retto verso la metà. Mi si dice d'esservisi rinvenuta altresì una piccola campana di metallo, ma non avendola peranco osservata non posso decidere della sua antichità.
Dal contadino che l'ebbe trovata passò la detta iscrizione tosto e subito nelle mani del proprietario del terreno e mio amico D. Giangregorio Falcone di Capracotta. Ma per le segrete pratiche d'invida persona, a grande stento e non prima di questi giorni mi è stato permesso poterla osservare, e ricavarne due calchi l'uno in carta, l'altro in stagnuolo.
Il terreno dianzi indicato col nome di Fonte del romito giace in un piano abbastanza spazioso sul pendìo meridionale della Macchia, una delle più alte vette degli Appennini della provincia di Molise. Aspro, scosceso, quasi tutto sasso è questo monte, e coperto di nevi gran parte dell'anno. Gli stanno allato verso ponente la montagna detta il Campo, forse dalla grande pianura che vi è alla sommità; e più in là quella di Monteforte, ove sono i ruderi di alcune fabbriche antiche rispondenti ad un Castrum inhabitatum Montis fortis, giusta si legge in antico strumento del 1450 esistente, come gli altri che saranno citati in appresso, nell'archivio municipale di Agnone. Dal lato opposto trovasi Monte del Cerro, e più all'oriente Monte Formoso, nella cui vetta sono gli avanzi di un castello menzionato in altro strumento antico del 1371 sotto il nome di Roccæ Montis Formosi castri inhabitati. Sul vertice di esso Monte della Macchia sorgeva nei tempi andati (e se ne veggono ancora i vestigi) un oratorio dedicato a S. Nicola arcivescovo di Mira; ed io credo che ciò si facesse per mandare in dileguo ogni memoria di falsi Dei annessa a quel luogo. Più abbasso, dalla parte di sud-ovest, alla distanza di circa mezzo miglio dal sito dello scavo, scorgonsi le reliquie della vetusta città più sopra indicata. Fra esse trovasi un ricinto di mura ciclopiche formate in modo affatto diverso dalle altre mura poligonali di questa contrada, di grandi massi irregolari e di pietre minori disposte in file orizzontali, siffattamente che le pietre più piccole stanno sempre al di sotto. Dalla parte di levante esso recinto, che ha 1.300 palmi di lunghezza e circa sei di grossezza, va a terminare in una fabbrica semicircolare che suppongo essere i fondamenti di una torre di forma rotonda, più salda agli attacchi delle macchine belliche di quella quadrata che vedesi preferita nelle torri di Pompei. In tutto lo spazio occupato da queste ruine, che per altro non è molto esteso, difficilmente scorgesi un mattone: ma trovansi invece copiosi frantumi di vasi di terra cotta, rossi e nerastri di fabbrica ordinaria, come pure innumerevoli pezzi di quella materia vetrificata in colore nericcio che vedesi nelle fornaci de' pentolai: onde è lecito argomentare che esistessero colà delle figuline, dei cui lavori importerebbe avere qualche saggio, non conoscendosi finora nulla intorno a quest'arte tanto necessaria agli usi ordinari della vita domestica presso gli antichi popoli del Sannio. Tutti gli avanzi di quelle fabbriche mostrano semplicità e rozzezza. Si cercherebbe invano in mezzo ad esse un segno o vestigio d'ornamenti d'architettura: anzi è notevole che non pochi muri di case veggonsi fatti di pietre più o meno regolari senza cemento. Ogni cosa concorre dunque ad accennare che tale città, o castello che dir si voglia, sia tra le più vetuste dei Sanniti, e forse una delle prime abitazioni della colonia sacra dei Sabini dopo il passo del Sangro, che non dista da questi luoghi più di sei miglia dalla parte del comune di Castel del Giudice. Ma quale ne sarà il nome? Io credo che si trovi nei vocaboli Kerriin, Kerri, Kerriiais e simili, che replicate volte e non ambiguamente leggonsi nel bronzo in discorso. Tale idea mi vien suggerita dal considerare che ritiene tuttora il nome di Cerro, come sopra si è detto, la montagna situata all'oriente e presso di quella in cui giacciono i residui di essa città, e che vallone parimenti del Cerro addimandasi un torrente che scorre lungo le radici di questi monti e va ad imboccare nel vicino fiume Verrino, detto Guerrino in pergamena del 1450. Né questo è tutto. In diverse scritture del 1377, 1480 e 1483 è fatta frequente menzione di un Castri inhabitati Cerri; il quale castello certamente antico, perché già allora disabitato, se non è identico alla città di cui si parla, ho argomenti per conchiudere che non doveva esserne lontano. Io tengo dunque per molto probabile che la nostra acropoli si chiamasse Cerro, e che in questo senso debbano spiegarsi le parole analoghe della nostra iscrizione, dove, a quel che sembra, sono registrati i nomi di diverse divinità sannitiche, la più parte campestri. Così quel Kerri della 3° e 32° linea io inclino a crederlo una deità tutta patria, cioè il genio tutelare del monte e della città guardatrice del tempo che le era sottoposto.
Del resto non è cosa fuori dell'ordinario che si appellasse Cerro una città posta in contrada ove nascono e sono folti e frequenti gli alberi di tal nome, poiché si sa che tanti paesi antichi denominavansi dalle piante dimestiche o silvestri che solevano allignare nei luoghi dove erano situati. In fatti senza uscire nel Sannio ne abbiamo un esempio nei popoli Fagifulani e Ficulenses rammentati da Plinio, i quali io credo così detti dai loro siti pieni anticamente di piante di faggi e di fichi.
Francesco Saverio Cremonese
Fonte: F. S. Cremonese, Notizia di una tavola di bronzo con iscrizione sannitica ed altre antichità della stessa data scoperte nelle vicinanze di Agnone, in «Bullettino dell'Instituto di Corrispondenza Archeologica per l'anno 1848», 10, Roma, ottobre 1848.