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Quattro vite


Maria Teresa Montuori

Come prima cosa la mattina vedemmo una riserva, il Giardino della Flora appenninica: era una passeggiata piacevole in mezzo alla natura, ad agni passo del sentiero c'erano cartelli di legno con immagini e descrizioni delle piante. Lirio e Mariposa perlopiù si divertirono a correre nella neve, io sfidai León a chi conosceva i nomi di più piante: non ne sapeva quasi nessuno.

– Questo gioco non mi piace. E le bambine saranno tutte infreddolite dopo. – Ci tenne a precisare.

– Te la prendi subito però eh. – Scherzai io, e con la coda dell'occhio vidi che tratteneva un sorriso.

Vedemmo anche il museo e visitammo le due chiese del paese: la chiesa di Santa Maria di Loreto e la chiesa parrocchiale dell'Assunta. Ci fermammo in quest'ultima per la messa di Natale.

Mentre passeggiavamo per il paese, Mariposa ci disse che quel paese era proprio un bel posto per giocare a nascondino, pieno di stradine e angoli in cui nascondersi. Mi ritrovai a pensare a quanto era bello vedere il mondo con gli occhi dei bambini. Verso l'una le piccole iniziarono a lamentarsi perché avevano fame.

– Fermiamoci in qualche ristorante aperto allora. – Propose León.

Ci fermammo in un locale carino su una delle strade principali: assaggiammo agnello alla menta e zuppa di ortiche, che per quanto fossi scettico all'inizio, devo ammettere che mi piacque. León invece apprezzò molto la pezzata con la carne di capra.

– In estate fanno la sagra della pezzata. – Gli dissi.

– Ah, capito. Ma insomma, non potevamo venirci quando le temperature erano sopra lo zero? Almeno mi sarei fatto una scorpacciata di capra. – Disse ridendo.

– Ma questo posto si chiama Capracotta perché cucinano la capra? – Chiese Lirio, che era stata piuttosto silenziosa tutta la mattina.

– Non proprio. – Dissi io.

– C'è una leggenda che racconta che alcuni zingari avessero deciso di bruciare una capra come rito di fondazione, nel luogo esatto in cui avevano deciso di costruire la loro città. La capra fuggì sui monti, dove morì, e gli zingari decisero di fondare lì quella città.

Lirio adorava quando le raccontavo delle leggende.

– Hai visto? Ho ragione a dire che è google vivente? – Disse León.

Risi. In realtà non lo sapevo, avevo cercato quelle informazioni apposta prima del viaggio.

– Posso dargli un soldino? – Mi chiese Lirio.

All'inizio non capii subito a chi si stesse riferendo, poi però realizzai: c'erano tre uomini ad un angolo del ristorante, che avevano suonato i canti natalizi per tutta la durata del pranzo. Uno, quello al centro, aveva una riccia barba grigia, era il più anziano. Gli altri due invece erano più giovani, quello sulla sinistra non aveva dieci anni più di me.

– Non sono come quelli che chiedono l'elemosina in mezzo alla strada, tesoro. Loro sono pagati per stare qui. Però se ti è piaciuto come hanno suonato e vuoi farglielo sapere, tieni, portagli una monetina. Mettila nella custodia della chitarra.

Lei mi sorrise, prese la moneta e andò. L'uomo in mezzo le fece un inchino e le sorrise, e lei lo salutò con la mano prima di andarsene.

 

Nel pomeriggio andammo alla stazione sciistica: era la prima volta che León provava a sciare, ma non andò poi così male. Mariposa correva felice da una parte all'altra, scendendo con lo slittino e risalendo. Era letteralmente instancabile, Lirio invece si fece sempre più silenziosa. Curioso di capirne il motivo, mentre aspettavamo seduti nella neve che Mariposa risalisse con León sulla cima della collina da cui si erano lanciati con lo slittino, provai a parlarne.

– Che c'è che non va piccola? – Le chiesi.

Lei fece spallucce. Non è facile parlare a una bambina di quattro anni, ma lo feci lo stesso.

– Se hai qualche problema puoi parlarmene, lo sai. – Continuai.

Lei mi guardò e notai che aveva gli occhi lucidi. Le feci passare un braccio attorno alle spalle e me la tirai sulle gambe: la lieve pressione del suo peso era familiare, mi ricordava di quando era più piccola e la tenevo nella stessa posizione.

– Mariposa è la sorella di León. Al convento lo sanno tutti che ha un fratello che la pensa sempre. – Io annuii.

– Spesso mi hanno chiesto tu invece chi sei. – Disse piano poi.

– Io non lo sapevo e ho detto che tu eri mio fratello perché... alla fine stai con me come León sta con Mariposa. Però mi sento un po' in colpa perché è una bugia e poi non ti ho chiesto il permesso. – Mi disse.

Io le sorrisi nel modo più dolce che conoscevo.

– Tesoro, a volte vogliamo bene a qualcuno in un determinato modo anche se non fa parte della nostra famiglia. Io sono stato con te fin da quando eri piccola, e in un certo senso sei diventata come una sorellina minore per me, quindi non ho problemi se vuoi dire agli altri che sono tuo fratello. In fondo poi, siamo tutti i bambini della Mater Orphanorum, no? In un certo senso è come se fossimo tutti fratelli.

Lei mi sorrise e si strinse contro il mio petto.

– Hai freddo? – Chiesi.

Lei scosse la testa.

– Ma... suor Anna dice che tu hai conosciuto la mia mamma.

Le posai istintivamente una mano sulla testa, sopra l'orecchio, come per proteggerla da un dolore perfido che conoscevo bene.

– L'ho incontrata una volta sola, il giorno in cui ti ha lasciata al convento. Vi somigliavate molto sai? Aveva i tuoi stessi occhi. Quando sarai più grande se vuoi ti dirò di più di lei.

Lei annuì, poi si staccò. In quel momento arrivarono León e Mariposa: lui si era accorto che parlavo con Lirio e si era attardato apposta.

– Sarebbe quasi ora di spostarci all'ultima tappa della giornata. – Disse.

– Nooo! Voglio fare un ultimo giro con Lirio! Posso???

Iniziò a pregare Mariposa.

– Certo, ma dovete scendere in quel punto, dov'è meno ripido, capito? – Dissi io.

La piccola dai riccioli neri sbuffo.

– Uff, volevo fare la discesa grande!

Io scossi la testa.

– No, no, quella solo con i grandi si fa. Se volete fare un giro da sole, la discesa piccola, niente storie!

Lei allora un po' a malincuore prese lo slittino con una mano e prese per mano Lirio con l'altra, e tirandosi dietro lo slittino e la sua amica andò alla discesa piccola.

– Però... allora lo sai che ogni tanto ci vogliono anche le regole. – Commentò Leó1n.

Io gli tirai una manciata di neve sui pantaloni.

 

L'ultima tappa della giornata era l'osservatorio di Capracotta. Si trovava appena fuori dal paese, non era molto grande, ma la visita fu bellissima. Si saliva su per una scalinata stretta che portava in cima alla torretta, dove c'era spazio per appena una decina di persone, o poco più. L'ultimo piano era circolare, sopra c'era una cupola che si apriva rivelando il cielo stellato. C'era un signore anzianotto che faceva da guida, a prima vista molto simpatico. Quando aprì la cupola, per un attimo stemmo tutti zitti, col fiato sospeso. Al centro della stanza c'era un cannocchiale.

– Guarderete a turno. – Ci spiegò.

Perfino Mariposa, che non stava mai zitta, rimase in silenzio per un po' guardando il cielo stellato. La prima volta che guardai nel cannocchiale, mi fermai poco tempo, perché avevo l'ansia che gli altri si irritassero ad aspettare. Dopo aver visto però quanto si fermavano gli altri, decisi di concedermi di guardarlo bene anche io. La cosa che più mi rimase impressa fu Andromeda: sembrava una macchina lattiginosa nel cielo, eppure era una galassia, un'intera galassia, ed era lì, sembrava così vicina.

– L'hai vista? – Chiesi a León sotto voce.

Per qualche motivo, sussurravano tutti. Lui annuì.

– Hai idea di quanto sia lontana? – Mi chiese.

– Circa due milioni e mezzo di anni luce. – Dissi io, mentre la guida faceva salire Lirio su una sedia perché potesse guardare anche lei.

– Non pensavo avessi cercato anche questo. – Disse León.

Io mi feci scappare una risata, che soffocai subito. Lo guardai e vidi che si era girato anche lui verso di me: nel buio della notte, mi sembrò di vedere Andromeda ancora riflessa nei suoi occhi.

 

Quando scendemmo la guida ci indicò alcune costellazioni con un puntatore laser. Lirio e Mariposa, stanche, erano in braccio a me e León.

– Presumo conosciate tutti l'Orsa Maggiore e l'Orsa Minore... ma qualcuno di voi conosce la storia di come quelle due costellazioni sono finite in cielo? – Chiese.

Non rispose nessuno. León mi guardò, ma non la sapevo neanche io.

– La leggenda vuole che Callisto, figlia del re di Arcadia, fosse una delle tante amanti di Zeus. Ella suscitò l'invidia di Giunone per la sua bellezza tanto che la dea decise di tramutarla in un'orsa. Ma un giorno Arcade, figlio di Callisto, durante una battuta di caccia s'imbatté nella madre e, non riconoscendola, stava per ucciderla. Ora, per quanto la morale di Zeus fosse discutibile, era un po' brutto anche per lui che una delle sue amanti venisse uccisa dal suo stesso figlio. Il re degli dei trasformò anche Arcade in un orso. E allora Zeus li mise ad inseguirsi per sempre nel cielo: Callisto divenne l'Orsa Maggiore e Arcade l'Orsa Minore.

Lirio si era svegliata. I suoi occhi brillavano più delle stelle sopra di noi mentre ascoltava quella storia.

– La aggiungiamo ai racconti della buonanotte fratellone? – Chiese.

– Certo. – Le sussurrai.


Maria Teresa Montuori

 

Fonte: M. T. Montuori, Quattro vite, Albatros, Roma 2024.

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