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Salvarsi mediante una fuga collettiva

  • Immagine del redattore: Letteratura Capracottese
    Letteratura Capracottese
  • 12 giu
  • Tempo di lettura: 6 min

Giorgetti Osman Carugno
Ezio Giorgetti e Osman Carugno.

Negli stessi giorni della fuga da Aprica, il 9 settembre, a circa 200 chilometri di distanza piú a est, in Veneto, un altro gruppo di trentadue ebrei jugoslavi decise di abbandonare il suo luogo di residenza coatta, la cittadina di Asolo in provincia di Treviso, dove era stato confinato dal 30 novembre del 1941. L'intenzione era di dirigersi verso sud, incontro all'esercito degli Alleati, che stava risalendo la Penisola. Anche questo gruppo aveva leader riconosciuti: l'avvocato Ziga Neumann di Zagabria e il dottor Joseph Konforti, commerciante e commercialista che ne aveva sposato la figlia. La contessa Fieta, di Asolo, e la figlia Clara, che usavano passare l'estate a Bellaria, all'Hotel Miramare di proprietà della famiglia Giorgetti, munirono il gruppo jugoslavo di una lettera di raccomandazione. I Fieta erano padroni della casa che Neumann aveva preso in affitto durante il periodo di libero internamento e gli avevano consegnato parecchie lettere di raccomandazione, indirizzate ad amici che abitavano sulla costa adriatica. Non solo, la contessa prestò anche a Neumann una notevole somma di denaro per le necessità del viaggio. Un primo gruppo partí da Asolo a bordo di tre automobili fornite loro da un amico commerciante. I carabinieri, visto il caos e il vuoto di potere determinatosi l'8 settembre, non avevano ragione di ostacolare la loro partenza. Giunti a Castelfranco Veneto, dove arrivava la linea ferroviaria, gli jugoslavi decisero di non entrare nella stazione, già presidiata dai tedeschi, ma di dirigersi verso Adria. In quella cittadina, dotati delle credenziali della contessa, si presentarono alla tenenza dei carabinieri, dove un ufficiale, anch'egli privo di ordini superiori, acconsentì a firmare un permesso di circolazione per il loro camion fino alla Romagna. I fuggitivi avevano, infatti, fortunosamente trovato un mezzo di trasporto disponibile a portarli a Bellaria. Erano ora in ventisette e giunsero nella cittadina adriatica il 13 settembre, con mogli, bambini, masserizie e tante valigie.

Si presentarono ai Giorgetti, buoni amici della contessa, per chiedere ospitalità temporanea. Il proprietario dell'hotel, il vecchio Giovanni Giorgetti, era in procinto di chiudere la sua struttura per la fine della stagione e rifiutò. Il figlio di questi, Ezio, proprietario dell'albergo Savoia, accettò invece volentieri. Neumann e Konforti, che parlavano bene l'italiano, presentarono il gruppo come semplici sfollati del Meridione residenti in Svizzera e rientrati poco prima dell'8 settembre su suggerimento del consolato italiano. Vennero creduti e, come tali, accettati. Il gruppo di jugoslavi decise allora di rimanere sul posto, che sembrava tranquillo, in attesa dell'evolversi degli eventi e per studiare una qualche soluzione definitiva.

Dopo poco, il padrone dell'albergo cominciò a nutrire qualche sospetto che gli ospiti dell'albergo non fossero semplici sfollati: avevano nomi stranieri, parlavano una lingua strana, erano in tanti. Ai primi ventisette finti sfollati, infatti, se ne erano aggiunti altri tre.

Il 17 settembre Giorgetti chiese chiarimenti e Neumann giocò a carte scoperte, gli rivelò che erano ebrei in fuga. Giorgetti non reagí subito, ma decise di condividere la traumatica notizia con il maresciallo dei carabinieri di Bellaria, Osman Carugno. Il giorno precedente erano giunti altri quattro ebrei jugoslavi in fuga verso sud; intercettati dai carabinieri in stazione, erano stati mandati, non a caso, all'albergo Savoia. Si trattava per ora di una specie di luogo di internamento, non molto diverso da quello precedente di Asolo, tant'è vero che il gruppo dei fuggiti/sfollati crebbe ancora con altri quattro jugoslavi di Zagabria.

Ora il gruppo era composto da trentotto persone. Era una situazione del tutto anomala, tollerata dal maresciallo Carugno, ma irregolare. Dopo qualche giorno, per prudenza, i documenti d'identità di tutti vennero sepolti nel giardino dell'albergo, ma il gruppo mancava di carte annonarie. Il resto della cittadinanza considerava inverosimile che fossero sfollati, come avrebbero voluto apparire. I leader del gruppo cercarono un peschereccio per poter allontanarsi, via mare, dal posto diventato ormai pericoloso (a pochi metri dal loro albergo c'era un comando militare tedesco) ma, alla fine, abbandonarono quell'idea.

Ezio, divenuto ormai l'organizzatore ufficiale del gruppo, era conscio che la soluzione di far passare per ospiti del suo albergo gli jugoslavi non poteva essere definitiva, organizzò quindi un incontro tra Neumann e Konforti e l'arcivescovo di Rimini, Vincenzo Scozzoli, per chiedere di ospitare i fuggitivi, in caso di necessità, nei conventi del Riminese. La cosa non andò a buon fine. Si era ormai agli ultimi giorni di ottobre, ed Ezio Giorgetti trovò un'altra soluzione: spostare il gruppo, ridottosi a trentaquattro persone, a Igea Marina nella pensione Esperia, appartata e lontana da sguardi indiscreti. La pensione era ufficialmente chiusa, gli ospiti dovevano essere “trasparenti”, non uscire, tenere le persiane chiuse, non fare rumore. Al vitto pensava Giorgetti. Quanto al problema dei documenti, fu lui a trovare una soluzione. Si rivolse a un suo conoscente, il segretario comunale di San Mauro Pascoli, Alfredo Giovannetti, che rispose prontamente e con generosità. Era in grado di sottrarre carte in bianco al comune, ma quelle necessarie erano troppe. I soccorritori Giorgetti, Carugno e Giovannetti si rivolsero allora a un'altra persona, Virgilio Sacchini, commissario prefettizio del comune di Savignano, sulla via Emilia. Anch'egli accettò di aiutare il gruppo di ebrei in fuga. Iniziò una frenetica attività di contraffazione delle carte in bianco. Parteciparono all'impresa: l'amico Giuseppe Rubino, cliente dell'albergo di Giorgetti, che si recò a Milano per procurarsi il timbro, falso, del comune di Barletta; l'incisore di Rimini Piero Angelini; il fratello di Ezio Giorgetti, Luigi, che scrisse i dati anagrafici falsi, con nomi italianizzati e de-ebreizzati.

L'arcivescovo fece sapere che metteva a disposizione dei rifugiati coperte per l'inverno, che Giorgetti, Konforti e la moglie andarono a prendere a Rimini.

Tra la fine di novembre e l'inizio di dicembre 1943, Ezio venne a sapere che nella borgata di Capanni, sulle rive del Rubicone, c'era un grosso casolare disabitato appartenente alla tenuta La Torre di San Mauro Pascoli, dei principi Torlonia. Sembrava un rifugio piú sicuro della pensione Esperia. Accanto al casolare c'era anche una pieve, che i finti sfollati frequentarono per non destare sospetti nei contadini. La vita nel casolare con il freddo invernale fu molto difficile, qualcuno del gruppo si ammalò e ricevette aiuto dal farmacista di Bellaria, Giuseppe Olivi, che forní medicine e consulenza. Anche lui era al corrente che si trattava di ebrei in fuga. Intorno al gennaio del 1944, i tedeschi requisirono i principali fabbricati della tenuta La Torre, in vista di un previsto sbarco alleato sull'Adriatico, proprio all'altezza di Bellaria. Ordinarono lo sgombero totale entro quindici giorni. Fu il panico. Dove andare? La soluzione la suggerí Osman Carugno, che fece trasferire i profughi all'albergo Italia di Bellaria, di proprietà di un suo conoscente, Cino Petrucci, che subaffittò a Giorgetti i suoi locali. Si era ormai a metà febbraio del 1944.

Il 4 marzo, Ezio Giorgetti portò la terribile notizia che il gruppo era ricercato. I tedeschi erano andati a cercarli ad Asolo e a Padova, e prima o poi sarebbero arrivati a Bellaria. L'amico milanese Rubino si recò allora a Milano per cercare di trovare un contatto con contrabbandieri in grado di condurre il gruppo in Svizzera. Li trovò: due del gruppo si recarono in seguito a Milano e poi sopra Varese per prendere accordi diretti con il passatore, ma tornando a Bellaria trovarono che alcuni compagni si erano ammalati ed erano impossibilitati ad affrontare il viaggio attraverso la montagna.

Rinunciarono all'idea, ma l'atmosfera a Bellaria era ormai irrespirabile, i tedeschi stavano fortificando tutta la zona ed erano dappertutto.

Fu di nuovo Giorgetti a trovare una soluzione: si consigliò con un parente della moglie, Giannetto Filippini, che era commerciante di bestiame e che, per questo, aveva molte conoscenze all'interno del territorio. Indicò, come possibile nuovo rifugio, Villa Battelli a Pugliano Nuovo, vicino a San Leo. Si trattava di un albergo in ristrutturazione e quindi, sicuramente, vuoto.

I capigruppo andarono in esplorazione, il posto si trovava a settanta chilometri da Bellaria, lontano dalle vie di comunicazione, tra i monti. Sembrava una buona soluzione, inoltre era vicino alla Repubblica di San Marino dove Giuseppe Forcellini, segretario di Stato agli Affari interni, già da tempo contattato, aveva promesso accoglienza in caso di necessità.

La villa era completamente vuota. Giorgetti, con i permessi speciali dati dal maresciallo Carugno, organizzò le cose in modo che tutta l'attrezzatura alberghiera di Petrucci venisse spostata in camion a Pugliano. Petrucci stesso vi si trasferí con la famiglia, cosí come gli amici Rubino. Gli abitanti di Bellaria e dei paesi vicini, intanto, ricevettero dai tedeschi l'ordine di evacuazione e il loro territorio fu militarizzato.

Finalmente, gli ebrei ebbero un po' di quiete. Ma la calma era momentanea.

Verso metà luglio del 1944, militari tedeschi si presentano a Villa Battelli, intimandone la requisizione entro due o tre settimane. Di nuovo, si presentò la drammatica scena di cinque mesi prima. Dove andare questa volta? La soluzione venne dal paesino vicino, a un chilometro di distanza: era abitato da poche decine di contadini che già avevano avuto parecchi contatti con gli “sfollati” di Villa Battelli. I contadini si dissero disponibili ad accogliere gli sfollati, che dovevano dividersi tra le varie case. I Puglianesi avevano paura dei tedeschi e delle requisizioni del bestiame che avevano nascosto; stavano occultando anche qualche soldato renitente alla leva. Non sapevano però di ospitare ebrei in fuga, cosí come non lo sapeva neanche l'albergatore Petrucci. Finalmente, il 22 settembre 1944, soldati inglesi si presentarono a Pugliano Vecchia e i finti sfollati poterono rivelare ai loro ospiti e ai loro amici la loro vera identità.


Liliana Picciotto

Fonte: L. Picciotto, Salvarsi. Gli ebrei d'Italia sfuggiti alla Shoah (1943-1945), Einaudi, Torino 2017.

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