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Sant'Antonio


Giuseppe Castiglione di fronte alla ex fontana di S. Antonio.

Il fiore all'occhiello di Sant'Antonio era, escludendo ovviamente la chiesa, l'orto del maestro Ottorino. Vi erano delle bellissime piante, tra le quali spiccavano un pero e un melo. A maggio, al tempo della rifioritura, gli alberi aprivano, oltre il muro di cinta, le loro belle chiome, che si fondevano in un'unica grande massa verde, dai toni variegati.

I rami del pero ombreggiavano tutto l'imbocco del Corso e sfioravano con le loro punte i balconi dell'albergo; quelli del noce si lanciavano verso la casa di don Pasqualino.

Il pero portava frutti piccoli e gustosi, il noce si caricava nelle annate buone di grosse noci. Ne sapevano qualcosa i ragazzi di Sant'Antonio e anche quelli degli altri rioni, i quali, a ottobre, quando i frutti erano maturi, nelle giornate ventose, ronzavano sempre lì sotto, in attesa che qualche pera o qualche noce venisse giù.

Spesso però, stanchi di attendere, cominciavano la sassaiola contro i rami, con un occhio alle finestre del maestro Ottorino, il quale qualche volta si affacciava e...:

– Domani, domani a scuola, birbanti!

La piazza di Sant'Antonio aveva anche un altro punto di attrazione: una bella fontana di ghisa con teste di tre cavalli sopra alla vaschetta.

Il pero non c'è più. Il noce è al lumicino e nei pomeriggi estivi l'ombra delle sue rame, un giorno così frondose, si proietta stanca e tremolante sul bianco della casa prospiciente.

Non c'è più neppure la graziosa fontana, che in quelle lontane stagioni accoglieva nella sua vaschetta vuota i bimbi di sant'Antonio, i quali si divertivano un mondo con le loro finzioni giocose incitando i cavalli al galoppo, accarezzavano le loro testine con le froge dilatate, da cui neppure allora sgorgava l'acqua.

 

Gustavo e Nicola

Nell'idea di municipio era implicita quella di Gustavo. Non si concepiva l'uno senz'altro.

Chiunque andava nell'Ufficio comunale per il disbrigo di una pratica, sapeva di trovare in Gustavo non solo il solerte redattore degli atti richiesti, ma anche il consulente disinteressato, pronto a consigliare, a chiarire, a "mettere in bocca col cucchiaino", se era il caso.

Gustavo, nel suo piccolo, impersonava la burocrazia fattasi, prodigiosamente, umanità: il che non è poco.

Nel primo pomeriggio Gustavo passava da mastro Nicola, che lo aspettava seduto sul muretto davanti all'orto del maestro Ottorino. Tutti e due se ne andavano lemme lemme alla Madonna, conversando allegramente di questo e di quello.

D'inverno Gustavo e Nicola trascorrevano qualche ora pomeridiana insieme nella bottega di questi, nel largo Sant'Antonio.

Tra una cucitura e l'altra, Gustavo infilava qualche battuta spiritosa, di quelle al peperoncino, che mandava in visibilio Nicola, facendolo esplodere nella sua nota risatona.

Gustavo lo gratificava con due calorose pacche sulla schiena. Nicola, ridendo ancora più fragorosamente, esclamava:

– Uŝtà...! E che diavolo!

Di tanto in tanto dalla cucina retrostante faceva capolino la buona zi Francesca, che faceva venire in mente la candida vecchietta reclamizzata sulla scatola del cacao Talmone.

La sera Gustavo e Nicola si rivedevano al Circolo, sul Corso.

Capitava qualche volta che si mettessero allegri, che andassero, come dire, un po' su di giri. Cominciavano allora i dolori di pancia per il povero Vincenzo Campana, il gestore.

Nicola, che pure qualche volta, come capita a tutti, perdeva il sestante, con Gustavo non si arrabbiava mai. Non se la prese neppure quella sera d'estate, quando diradatesi le nebbie del porto di... Bacco, si ricordò del lavacro della Fonte della Staccia, per la verità un po' troppo vigoroso, voluto da Gustavo per concludere degnamente le epiche gesta di Pescobertino.

– Uŝtà...! E che diavolo! – E tutto finì lì.

Avevano in comune la passione della musica lirica. Quando la banda suonava in piazza, nelle feste, Nicola e Gustavo erano in prima fila dietro agli ottoni, tutt'orecchi.

Ascoltavano rapiti. Alle sinfonie e alle arie più note si commuovevano, si esaltavano.

Il giorno dopo, in bottega, presente Gustavo, Nicola non faceva che ripetere i motivi musicali che più lo avevano entusiasmato, imitando il bombardino, lo strumento preferito.

Gustavo e Nicola non sempre sentivano il bisogno di comunicare verbalmente fra loro. Talvolta rimanevano l'uno accanto all'altro lungo tempo senza dirsi nulla. Forse, in quelle pause silenziose, le loro anime sensibili, legate da vera amicizia, trovavano il modo di intendersi senza la materialità dei segni, solo spiritualmente.

 

Don Olindo

Don Olindo il pomeriggio scendeva giù di casa e cominciava la sua passeggiata, con la pipa in bocca, lo zucchetto in testa e le pantofole ai piedi.

Camminava a passi corti: arrivava fino alla casa di Poldo e poi tornava indietro fino al muro dell'orto del maestro Ottorino. Su e giù: non andava oltre. Come la lupa del Campidoglio, dicevano.

Qualche rara volta prolungava la passeggiata fino al Circolo, a metà del Corso.

All'ingresso scambiava qualche parola con Vincenzo Campana e poi entrava nella prima sala, quella del bigliardo, dove immancabilmente trovava dei giovanotti che giocavano.

Appena don Olindo entrava, manco a farlo apposta, una biglia andava a finire in buca, tra il disappunto del giocatore e di don Olindo, che sbottava:

– Ma benedetto il cielo! Quante volte ve lo devo ripetere: otturate le buche con i giornali vecchi, è l'unica maniera per non farci andare le biglie. Ci vogliono quarantanove giornali, non di più.

Si tratteneva qualche attimo ancora, spipando piano, e poi se ne andava in un'altra sala.


L'odierna villa comunale (foto: D. Mancini).
 

Il maestro Ottorino

Il maestro Ottorino era tutto l'anno alle prese con le organizzazioni sportive giovanili. Il suo tempo libero, e anche un po' dell'altro, lo dedicava ad esse; rimettendoci anche del suo. Era lui che organizzava le gare di sci, le manifestazioni sportive e patriottiche, i saggi ginnici.

In queste attività profondeva tutto il suo dinamismo.

Aveva riattato un vecchio fondaco sotto a casa sua e vi aveva impiantato una sezione giovanile dello Sci Club. Lì convenivano i ragazzi e i giovanetti sciatori, che si preparavano alle gare sotto la sua direzione. Lui poi li accompagnava alle gare nei centri sciistici dell'alta Italia. Nei periodi di bassa e quando il direttore mancava, i ragazzi facevano come i topi della favola in assenza del gatto: ballavano... più precisamente, facevano a seggiate, trasformando il vecchio fondaco in un saloon western.

Un giorno a scuola, mentre il maestro Ottorino correggeva i compiti, venne Pasqualino Angelaccio a chiamarlo perché era atteso allo Sci Club. Il maestro lasciò i ragazzi in custodia a Pasqualino e, fatta la raccomandazione d'uso:

– Ripassate la lezione: mi raccomando, zitti e buoni se no oggi digiuni, – se ne andò.

Durante la sua assenza, uno scolaro, piuttosto scapatello, ebbe la luminosa idea di modificare a proprio vantaggio le votazioni segnate dal maestro sul quaderno, che erano per la verità bassine.

Detto, fatto! Quando il maestro tornò, licenziò Pasqualino e riprese la correzione. Il caso volle che il quaderno dell'improvvisato correttore capitasse proprio sotto i suoi occhi.

– E questo – chiese – che significa? Chi ha manomesso il quaderno?

– Pasqualino, – venne fatto di rispondere al ragazzo.

– Pasqualino!? E come s'è permesso? Domani, domani... di...

Ma non fini di dire la parola "digiuno", sempre così a portata di... lingua, perché si rese conto che Pasqualino era ormai da qualche anno fuori della giurisdizione scolastica.

– Va' a chiamarlo! – Disse a un ragazzo. Poi pensando che Pasqualino, componente della squadra dello Sci Club, era sul punto di partire con lui per Asiago, soggiunse: – Lascia stare! Penso io.

E la cosa finì lì, grazie alla provvidenziale bugia, a Pasqualino, allo Sci Club, ad Asiago.

 

La Valle

Era tornato l'aprile. La primavera, come spesso accadeva, tardava a comparire.

La campagna era ancora grigia e spoglia.

Sulle pendici di Monte Campo e sotto la cresta di Monte Capraro, qua e là, c'erano ancora grosse chiazze di neve che al primo tiepido sole del mattino riverberavano tenui bagliori.

Il maestro Ottorino, terminate le competizioni sportive invernali, si concedeva un po' di riposo e si dedicava alle cose di famiglia. Il sabato pomeriggio se ne scendeva col biroccio giù alla Valle, sotto a Monte Miglio. Lì aveva, in comproprietà, una piccola azienda agricola con un vecchio casolare, di pietra grigia, in un prato, seminascosto da un boschetto di quercioli. A fianco c'era un'antica cappella con uno stemma gentilizio sull'architrave. Intorno, boschi di cerri e praterie sempre verdi. Un angolo pittoresco, sereno e tranquillo.

A scuola, quando se ne presentava l'occasione, il maestro Ottorino parlava della Valle, magnificandola: della primavera che lì era già arrivata, degli alberi già carichi di gemme in procinto di sbocciare, delle semine primaverili e degli altri lavori campestri.

E allora, come per incanto, nell’aula ancora fredda che si affacciava sui tigli del giardino dell'asilo, ancora senza bocci, entrava una ventata della primavera della Valle e nelle menti degli scolari si accendevano fantastici sogni vagheggianti altri mondi e altri paesi.

 

La loggetta di mamma Nunna

Di fianco a Sant'Antonio, a sinistra, c'era la loggetta di mamma Nunna, tutta a basole di pietra, alla quale si accedeva per una piccola scaletta.

Nei lunghi crepuscoli delle calde sere estive, quando rientrare in casa costava fatica, tanta era la dolcezza e la pace dell’ora, mamma Nunna con i capelli candidi che le sporgevano dal fazzoletto di raso scuro, annodato sotto il mento, rammendava seduta su quella loggetta.

Mite, serena, affettuosa, mamma Nunna suscitava tenerezza in tutti. I bambini specialmente subivano il suo fascino e le stavano sempre tra i piedi. Venivano a farle compagnia le comari e le amiche del vicinato. Qualche volta salivano da lei Giacomo di Nenna e Paccale.

Paccale, pacioccone, allegro, pieno di spirito, faceva sbellicare dalle risa tutta la compagnia con il racconto di fatterelli, condito di battute comiche irresistibili.

 

Zi Donato Tatuccio

Ai piedi della loggetta, di fianco, abitavano Tatuccio e Pascalotto.

Essi non salivano mai sulla loggetta, ritenendola qualcosa come un futile soggiorno all'aria aperta, buono per le donnicciuole. Le spiritosaggini di Paccale erano per loro aria fritta.

Seduti sulla soglia delle rispettive case, uno di qua e l'altro di là, si godevano in pace la bella sera estiva. Fino ad un certo punto, però. Perché, ad un tratto, che è che non è, cominciavano a rimbalzare dall'uno all'altro frizzi e stoccate da non dirsi: per cose da nulla, poi. All'ora di cena si apriva il buccìtto di zi Donato e compariva la testa di Mapina. Tatuccio allora salutava Pascalotto, come se nulla fosse stato, e si ritirava. Zi Donato Tatuccio era noto per le sue uscite mordaci, spiritose, caustiche. Le sparava serio, compunto quasi e senza mai accennare ad un sorriso. Ed era proprio questo suo atteggiamento che conferiva alle battute, già di per sé risibili, una incontenibile carica di ilarità.

 

Zi Zaccaria

Custode della villa comunale, nonché giardiniere, era in quegli anni zi Zaccaria.

Zi Zaccaria curava con mano esperta le aiuole del giardino e vigilava a che i ragazzi non le calpestassero e non cogliessero fiori.

Quando notava che qualcosa non andava, correva per quanto glielo permettesse la gamba di legno, appoggiandosi al bastone, per constatare eventuali infrazioni. Se notava che qualche ragazzo aveva contravvenuto ai regolamenti, per esempio andando a passeggiare (che faccia tosta!) proprio in mezzo alle aiuole, zi Zaccaria alzava prima il bastone in segno di autorità e di ammonimento, poi estraeva una vecchia agenda tutta consunta e minacciava di prendere nota del trasgressore per la segnalazione a chi di dovere, dicendo:

– Attento che ti merco (ti marco, voleva dire).

Naturalmente non marcava mai nessuno e i ragazzi lo sapevano e... figuriamoci se la smettevano!

Ma zi Zaccaria, tutto compreso del compito affidatogli, che secondo lui aveva anche rilevanza educativa (non adoperava paroloni del genere, ci mancherebbe altro, ma il senso era questo), continuava a minacciare alla minima infrazione:

– Attenti che vi merco! Quando imparerete a stare a posto?

Quando se ne andò, i fiori avvizzirono e la villa divenne triste e vuota.


Domenico D'Andrea

 

Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.

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