Io, Annina, sono nata l'11 maggio 1927 in una casa di intelligenti e onesti lavoratori, ma la mia nascita fu triste: in quella casa entrò una culla ed uscì una bara.
Andavo a scuola dove frequentavo la terza elementare. Ogni mattina passavo da una mia compagna di scuola di nome Colomba. Una mattina la chiamai e sua nonna mi disse:
– Vieni di sopra che non è ancora pronta.
Salii di sopra e la nonna le stava mettendo i carboni nelle scarpe per asciugarle e per tenerle caldi i piedi. Mi guardò e disse:
– Tu non hai i piedi freddi? – poi aggiunse – E chi te lo dovrebbe fare? Tu non hai la mamma!
A quelle parole non diedi tanto ascolto, ma un altro giorno mi chiese se mamma Concetta mi volesse bene e io, fra me e me, dissi: «Ma che si è impazzita questa Colomba?».
Eppure ripensai a quelle parole e incominciai a cercare qualcuno che mi dicesse qualcosa, cioè la verità. Andavo sempre da mamma Cristina, che era la sorella di mia madre, ma non capivo perché tutte le zie le chiamavo così: mamma.
Andavo da lei per aiutarla, perché aveva molto da fare, visto che aveva cinque figli, aveva gli animali e tesseva la tela. Io le andavo a fare i cannegliùcce, ovvero i fili che si mettevano nella truva per fare le stoffe; a me piaceva molto farli, mi divertivano i frariéglie e la cruvétta (così si chiamavano). Solitamente ero allegra e cantavo mentre mamma Cristina tesseva e mi ascoltava.
Ma erano due-tre giorni che ero triste e silenziosa, che non facevo nulla e non cantavo. Mamma Cristina allora mi chiese:
– Non stai bene?
Io le risposi che stavo bene ma aggiunsi:
– Tu mi devi dire la verità. Io chiamo mamma Cristina, mamma Coletta e mamma Concetta: chi è la mia mamma? chi di voi tre è la mia mamma?
– Nessuna. La tua mamma sta in cielo, gli angeli l'hanno portata lontano da te e da tuo fratello.
Rivolsi gli occhi al cielo e dissi:
– Com'è alto il cielo... la mia mamma non l'ho vista e non la vedrò più...
Poi cominciai a piangere e a battere i piedi e a dire: «Cattivi bugiardi!». Mamma Cristina mi abbracciò e, piangendo anche lei, mi disse:
– Ci siamo noi che ti vogliamo bene e ti aiuteremo in ogni cosa.
A me piaceva andare a scuola ma non avevo nemmeno un quaderno su cui scrivere. Avevo una brava maestra di Napoli che, per non far destar sospetti nei genitori dei miei compagni, strappava un foglio dal mezzo dei loro quaderni, e con quello scrivevo per diversi giorni. Poi si rivolgeva a me:
– Di Rienzo, domani porta il quaderno e il pennino! – ma tutti i giorni era la stessa storia.
Una mattina, mentre andavo a scuola, cominciò a piovere. Mi riparai sotto quell'arco che chiamano tomba, vicino a dove abitava la comare di battesimo, la quale, nel vedermi lì, chiese:
– Annarella, perché non vai a scuola? – Io le risposi che non avevo i quaderni e lei disse: – Non piangere.
Scese giù e mi diede dei soldi. Non aveva figli ma era così buona con me e i miei fratelli... Con quei soldi comprai due quaderni e un pennino: arrivai a scuola tutta contenta, tanto che la maestra chiese cosa avessi combinato e io dissi che la comare mi aveva dato i quaderni. Ogni giorno si facevano dei piccoli compiti e quel giorno che avevo il quaderno nuovo, il compito era: "Parlate della vostra mamma".
Mentre i compagni cominciarono a scrivere, io rimasi col quaderno aperto davanti, la maestra mi bacchettò:
– E tu, Di Rienzo, perché non scrivi?
Io le risposi che la mamma non l'avevo mai vista né conosciuta, e allora la brava maestra, rivolgendosi a Dio, implorò: «Cosa hai fatto?», poi aggiunse:
– Su, scrivimi un'altra cosa.
Da quel giorno a casa sua mi volevano bene, ché la mamma non ce l'aveva nemmeno lei. Mio papà, invece, giovane carabiniere, era stato richiamato per la guerra del '37 e mandato in Spagna.
Questa è stata la mia infanzia.
Annina Di Rienzo
(a cura di Francesco Mendozzi)
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