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Era mio padre


Il Corso di Capracotta d'inverno.

Mio padre era un capracottese d.o.c.. E questo non solo per questioni di nascita, non solo perché i suoi genitori lo erano, non solo perché amava il suo paese e gli brillavano gli occhi ogni volta che tornava, o perché cucinava magnificamente la pezzata e nemmeno perché era conosciuto da tutti. Mio padre era capracottese d.o.c. soprattutto perché, in tanti anni lontano da Capracotta, non aveva mai preso nessun altro accento oltre quello del suo amato paese.

Era stato a Roma nove anni e, cosa più unica che rara, non aveva preso la minima cadenza romana, poi aveva vissuto otto anni in Svizzera e quasi quaranta a Termoli, ma niente. Lui parlava solo capracottese. Mio padre Capracotta l'ha vissuta in tanti modi, ma nel cuore il sentimento era sempre lo stesso e quel suo accento era la prova concreta di un amore durato tutta la vita.

Quella che vi sto per raccontare, quindi, se vogliamo, è una storia d'amore. Un amore puro, sincero, durato nel tempo e vissuto in forme diverse. Un amore nato da bambino quando, primo di quattro figli, girava per le strade del paese, con allegria e voglia di vivere. Ricordo i suoi racconti sull'infanzia, sulle difficoltà economiche della famiglia, soprattutto in tempi di guerra, su mio nonno che c'era poco perché era un pastore e mia nonna che tirava avanti con sacrifici e determinazione. Ricordo che, nonostante i tanti problemi vissuti e le ristrettezze, il racconto era carico di affetto e nei suoi occhi c'era sempre tenerezza nel descrivere quei tempi apparentemente così lontani.

Poi arrivò l'adolescenza e la necessità di trovare un lavoro per aiutare la famiglia. A 17 anni partì alla volta di Roma e si ritrovò a fare il sarto. La gioventù nella Roma della dolce vita fu per lui magica e bella, ma una parte del suo cuore era sempre legata al suo paese, alla famiglia, a quell'aria di montagna che gli riempiva i polmoni. Quella nostalgia, che prova chi lascia il proprio paese per cercare fortuna altrove, lo accompagnò per tutta la vita e si acuì negli otto anni in terra svizzera. Una terra straniera, una lingua diversa, difficile, a tratti dura. Lavorò e tanto, si ambientò alla nuova vita, si sposò e ebbe due figli, ma la voglia di tornare in Italia era troppa. Così, un giorno, decise di tornare in Molise, in una Termoli che attendeva l'apertura dello stabilimento FIAT e che, qualche anno più tardi, mi vide nascere.

La gioia di esser tornato, di stare di nuovo vicino casa, per lui fu immensa. Adesso poteva tornare spesso e volentieri a Capracotta. Io crescevo divisa tra mare e montagna. Per me erano entrambi elementi familiari, naturali. L'aria di mare, il profumo di salsedine sulla pelle, investiva le mie narici ogni giorno, mi entrava nella mente e nel cuore, ma era sempre viva anche quella sensazione di aria pungente e pura di montagna, l'aria di Capracotta. Quando papà ci portava al paese, per me quel clima non era estraneo. Era un'altra parte di me.

Così sono cresciuta, vivendo quelle giornate nelle varie stagioni. L'inverno con la neve che copriva ogni cosa, l'autunno con la sua nebbia e la sua malinconia, l'estate con le scampagnate all'aperto e la primavera, quando il paese si toglieva di dosso la neve che l'aveva sommerso e le fontane traboccavano di acqua fresca e dissetante. Dai miei ricordi di bambina emergono le corse alla chiesa della Madonna con mio cugino Carlo, quando andavamo a trovare nonna che faceva la sagrestana. Ci divertivamo con poco, tutto era semplice, gioioso, divertente, familiare.

Con il passare degli anni quel paese, il paese da cui inizia la storia della mia famiglia, il paese a cui è legato indissolubilmente il mio cognome, divenne sempre più parte di me.

Ricordo le nostre gite familiari. L'aria fresca, la neve, il bosco d'autunno con i suoi odori e colori magnifici, papà che amava andare per funghi, le passeggiate estive e la festa della Madonna, che vedeva tutta la famiglia riunita mentre nonno affettava, per l'occasione, il prosciutto stagionato in casa. Ricordo la mia gioia quando papà mi portava sul sentiero diretto a Monte Campo e l'immancabile mangiata una volta giunti in cima. Era grande l'emozione di vedere tutto il paese da lassù, Prato Gentile e quel panorama che riempe il cuore e che sento un po' mio. Perché quando il tuo cognome è capracottese, il paese lo senti anche un po' tuo.

I ricordi sbucano qua e là nella mia mente. Momenti unici e momenti ripetuti uguali nel corso degli anni. I lunghi pranzi, nonna che preparava sempre il sugo dalla mattina presto, le partite a carte con nonno Giovanni e le lunghe conversazioni dopo pranzo, quando nonna Carmela raccontava qualche aneddoto della sua vita di gioventù su nostra richiesta. Le giornate sembravano sempre volare via e ricordo l'espressione malinconica di nonna quando ci salutavamo, mentre mio padre le diceva che ci saremmo rivisti presto, cercando di accorciare la distanza con le immancabili telefonate domenicali. La tenerezza di quel breve scambio di battute telefoniche è impressa ancora viva in me...

Mà, gna stieà? Che fa, signurìa?

Ch'aja fà? Ije sò vecchia.

E che fa re tiémbe?

Sciòcca!

Quando papà andò in pensione, tornava più spesso al paese. La gioia di avere più tempo, di potersi fermare più a lungo, senza lo stress del lavoro, lo resero ancora più felice. Così trascorsero altri anni, anni in cui quella malinconia della distanza sembrava essersi placata. Fino all'ultimo anno, quando papà, per ragioni di salute, si poteva spostare sempre meno da Termoli. Quella particolare malinconia tornò a prendere forma nell'espressione dei suoi occhi. Ricordo perfettamente l'ultimo anno con lui davanti al computer. Ogni giorno si collegava al sito del comune di Capracotta per vedere il suo paese dalle webcam. Papà lo faceva tutti i giorni e tutti i giorni sospirava con un po' di immancabile nostalgia, ma aveva trovato un altro modo per stare vicino ai luoghi che amava.

Capracotta resterà sempre nel suo cuore anche se il suo cuore ha smesso di battere lontano dalla sua terra, in una fredda notte bresciana. Ci ha lasciati così, nel dicembre del 2011, inaspettatamente, silenziosamente, umilmente. Ma il suo paese, il suo amato paese è sempre con lui, con la foto che noi figli abbiamo stampato sulla sua lapide mentre la sua immagine guarda lontano, in direzione della montagna, con l'espressione serena.

Oggi tornare a Capracotta è sempre qualcosa di speciale per me, anche se, inevitabilmente, non è più la stessa cosa. Resta il legame, indissolubile e unico con quella terra, ma una forma diversa di malinconia si è presentata di nuovo con prepotenza. Una malinconia ancora più grande, più acuta, più spiazzante che stavolta, però, caratterizza l'espressione dei miei occhi...


Alessia Mendozzi

 

Fonte: A. Mendozzi, Era mio padre, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. III, Proforma, Isernia 2013.

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