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La Fonte della Fundióne e... il fuoco amico


L'incendio del 4 settembre 1921 (foto: G. Paglione).

Capracotta, come tutti i centri contadini, ha dovuto ringraziare il fuoco per la sua sopravvivenza ma, a volte, ha anche dovuto maledirlo per le tragedie che ha causato. Il nostro paese fu fondato intorno al 750 e abitato per più di tre secoli dai Longobardi che, prima della conversione, utilizzavano il fuoco nei loro riti pagani, tanto che lo stemma comunale con una capra sopra le fiamme trae probabilmente origine da quegli eventi.

Nel 1656 la popolazione capracottese ha utilizzato il fuoco per bruciare i vestiti degli appestati e, tra l'8 e il 12 novembre del 1943, l'ha maledetto per l'uso che ne fecero i Tedeschi. L'agricoltura che si praticava a Capracotta era di sussistenza, ovvero di autoconsumo. Lo scopo era quello di ottenere cibo sufficiente per sfamare i membri della famiglia contadina (si consumava ciò che si produceva o si allevava) e non si produceva per vendere ma solo per alimentare il nucleo familiare, interamente coinvolto nel duro lavoro di produzione. Il grano, le patate e i legumi erano le colture più praticate ma anche le meno redditizie, sia per il clima che per il terreno montano. L'alto numero di abitanti capracottesi è stato sempre il riflesso della propria autosufficienza alimentare.

Negli anni '20 i siti di raccolta dei covoni - ammucchiati alla bell'e meglio - seguivano un ordine prestabilito che potesse facilitare la trésca in quegli stessi spiazzi o aie sui quali i contadini facevano girare, sui covoni ammassati, coppie di cavalli al trotto i quali, calpestando le spighe, ne facevano uscire i chicchi, per poi ventilare con pale di legno e grossi crivelli al fine di separare il grano dalla pula.


Lo spiazzo per la trebbiatura di via Pescara (foto: F. Di Tella).

In via Pescara, di fronte al Market Di Nucci, è tuttora visibile una di quelle aie di circa 1.000 mq,, foderata con selci tronco-piramidali (re zìppe) e utilizzata fino agli anni '50, quando la meccanizzazione cancellò in breve tempo usanze che avevano radici secolari: la mietitura a mano e la trebbiatura con gli animali, chiamate da qualcuno "a sangue".

D'altronde bastava una qualche calamità per gettare nella più cupa disperazione una famiglia contadina, come ciò che accadde il 4 settembre 1921 all'estremità meridionale del Rione San Rocco o il 6 agosto 1961 nel "prato di Rusulina", di fronte all'attuale caserma dei Carabinieri: l'incendio dei covoni di grano.

Negli anni '50, infatti, c'erano a Capracotta ben quattro siti di raccolta dei covoni, poiché si produceva molto grano (esistevano pure tre forni e tre mulini), e questi cumuli, ben squadrati, ordinati e coperti con enormi teli (copertoni), venivano sorvegliati notte e giorno per prevenire "accidentali" prelievi. Solitamente verso mezzogiorno la sorveglianza si allentava per il pranzo quotidiano e, proprio in quel frangente, scoppiò un furioso incendio che, alimentato da un leggero vento di scirocco, distrusse nel giro di poche ore il sacrificio di un anno di duro lavoro.

Entrambi i siti, distanti circa 500 metri l'uno dall'altro, si trovavano nei pressi di due fonti, quella della Fundióne e quella delle Croci, che non potettero essere d'aiuto per l'esiguo accumulo d'acqua esistente all'interno delle loro vasche. Le fontane furono letteralmente prese d'assalto dai contadini disperati, consci dell'impossibilità di salvare il loro prezioso raccolto. Si pensi che nell'agosto '61 la motopompa giunse solo nel tardo pomeriggio quando ormai non c'era più nulla da fare!

La disperazione di chi aveva perso il raccolto era tangibile e la si notava negli occhi gonfi di lacrime degli uomini, nei capelli che le donne si strappavano e in coloro che, in un grande slancio di umanità e di coraggio, cercavano di rincuorare gli sventurati.

Anche in quella occasione, però, il popolo capracottese dette sfoggio del suo innato senso di solidarietà, cosicché quelli che erano stati più fortunati reintegrarono la quota di grano andato perduto. Un gesto che ricorda quello della distruzione di Capracotta, quando circa 1.000 persone furono ospitate nelle masserie di Guastra e di Macchia senza alcuna contropartita. Si può ben dire che ciò che il fuoco distrusse, la solidarietà umana ricompattò!

Le cause dell'incendio non furono mai chiarite. Di certo non fummo noi ragazzi ad appiccare le fiamme e anzi si suppose che fosse stata colpa della sbadataggine di qualche anziano appisolato con la pipa in bocca, il che non è da escludere visto che i capracottesi erano dei gran fumatori!


La Fonte Giù (foto: C. Di Bucci).

Dopo tanti anni mi ritrovo di fronte alla Fonte della Fundióne, che negli della mia infanzia era sempre bistrattata o mal considerata dai compaesani perché si diceva che gli animali non ne apprezzassero la qualità dell'acqua.

Oggi è invece la fontana più bella di Capracotta, sempre ornata e ben curata, circondata da un verde rigoglioso, da un frequentato campo di bocce, da una casetta di legno sull'albero e da un ambiente bucolico e rasserenante.

Quando mi sono fermato per la prima volta a osservarne la beltà, deve aver notato il mio stupore e ha assunto, a modo suo, un tono di sussiego per quelle umiliazioni ricevute in gioventù. La fonte mi ha fatto notare che, pur avendo un cuore di pietra, ricorda con affetto persone e fatti passati, e mi ha anche rammentato che ognuno di noi è destinato a diventare un "suo" ricordo.

Con malcelata inquietudine le ho risposto che... è meglio mai che tardi. Però so che la mia è soltanto una pia illusione.


Filippo Di Tella

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