Domanda: – Su "Andy Warhol era un coatto" definisci il trash come «emulazione fallita di un modello alto», a tuo avviso esiste anche un trash non emulativo?
Risposta: – No, non esiste. Sempre però restando al mio modello di trash che si basava proprio sull'osservazione dei derivati rispetto al modello alto. Quello è stato uno dei più grandi errori della mia vita, usare un termine che altri avrebbero usato in tutt'altro modo.
Il mio trash non aveva nulla a che vedere con le burlette fatte da studenti fuori corso o con i distinguo operati da giornaliste snob davanti alla cultura popolare, soprattutto di origine televisiva. Perché i nemici del trash odiano la tv, non possiedono nemmeno il televisore, e poi parlano solo di televisione.
D: – Veniamo al tuo rapporto con i cannibali, uno dei fenomeni più interessanti della letteratura italiana Anni 90. Ritieni che molti di loro abbiano perso quella vena innovativa perdendosi nel macchiettistico o negli argomenti mainstream?
R: – Più passa il tempo, più mi rendo conto di quale fuffa fosse stata l'onda cannibale. Una squallida operazione di marketing nata ai tavolini di una casa editrice che, scemato l'interesse dei media, non ha portato a nulla. E supportata dai vecchietti del Gruppo 63 cui non pareva vero poter succhiare linfa giovane per tornare a dettar legge.
Gli stessi protagonisti tenevano a non essere rinchiusi in gruppi o scuole. Ricordo il modo in cui Tiziano Scarpa sosteneva la sua indipendenza, anche perché legandosi a una conventicola avrebbe poi scontentato un'altra. Non ritengo che sia stato uno dei fenomeni più interessanti della letteratura italiana, anche perché non era letteratura, era editoria. C'è una forte differenza, su cui tornerò in maniera più specifica.
Certo che si sono dati tutti al mainstream. Al di fuori di quello non si resta stregati né si arriva a Cinecittà. Ora sono tutti cresciuti, sposati e con prole. Il tengo famiglia non risparmia nemmeno gli scrittori più trasgressivi.
D: – Come si è evoluto il neoproletariato a seguito della grave crisi economico-sociale che ha colpito l'Italia negli ultimi anni?
R: – La crisi ha insegnato una cosa fondamentale al neoproletariato: il vittimismo. Quando uscì quel mio libro l'idea che loro avevano di se stessi era: «Sono troppo figo, faccio l'agente immobiliare e la sera porto la mia donna a mangiare l'aragosta», frase che mi è stata detta realmente da un agente presso cui stavo comperando casa.
Oggi, invece, amano vedersi come vittime di quarantenni crudeli (e loro ne hanno trentacinque), cervelli destinati alla fuga (la maggior parte ha solo la terza media e una preparazione infima), membri di una generazione senza speranza in un futuro di certezze.
Nota che fino a qualche anno fa erano loro i primi a ridere delle certezze. Quante volte li ho sentiti dire: «Ma a che ti serve una casa di proprietà? Tanto oggi sei qui, domani magari a New York» O ancora: «Certo che mi faccio un'altra vacanza, so godermi la vita io». E sotto con il credito al consumo.
Quando uscì "Neoproletariato" i campioni fasulli del buonismo di sinistra mi accusarono di essere cattivo con i poveri senza nemmeno aver letto il libro. Io non sono cattivo. Sono stronzo. E voglio vedere i neoproletari morire di inedia, di stenti.
D: – Ritieni che questa crisi abbia innescato dei processi di decrescita felice o per lo meno ci sia un ritorno a certi valori di sobrietà o siamo ancora dominati dal barocco brianzolo?
R: – La decrescita felice è una palla messa in giro da gente strapagata con la rubrica fissa su Repubblica o il programma su RaiTre.
D: – Che consigli ti sentiresti di dare a chi, in un'epoca di profonda crisi economica, vuole intraprendere la carriera di scrittore/saggista?
R: – Durante la mia ultima e pessima esperienza editoriale ricevevo inediti di persone che sognavano di pubblicare il loro romanzo. Nelle lettere di presentazione, oltre ai segnali di sicura mitomania («Il mio è il romanzo che l'Italia attende, perfetto nella trama come nello stile») scrivevano che da vent'anni lavoravano come dirigenti delle Ferrovie, medici, avvocati.
Qualche volta ho anche risposto, dicendo: «Gentile signore, lasci perdere. Tenga duro fino alla pensione e poi si dia ai viaggi organizzati». Crisi o non crisi il mio consiglio è lasciare perdere. O meglio, se si crede che basti scrivere un librino per diventare ricchi, darsi subito allo spaccio di droghe. Se poi si sceglie comunque un'esistenza di umiliazioni, di difficoltà, di collaborazioni mal pagate con i giornali, allora fatelo. Ma non dite che non vi avevo avvertito.
D: – Parli spesso di immigrati di lusso che si lamentano di Milano, ma lo sai che sono le stesse persone che quando tornano al paesello dicono quant'è figo svolgere qualche professione del sottoproletariato intellettuale (in genere chiamandola con il termine in inglese) nella mitica Milano guardando dall'alto in basso noi che siamo rimasti nel paesello?
R: – Certo che lo so! Gli stessi che quando arrivano qui iniziano a dire: «E questa sarebbe una metropoli?» e magari arrivano da Capracotta. Non riesco a capire cosa si aspettino. Forse il sindaco che va a riceverli in stazione?
Poi, di ritorno al paesello si lamentano: «Ma è già tutto chiuso? A Milano a quest'ora siamo ancora a bere sui Navigli!».
Dove, sia precisato, vanno solo loro. Lo dimostrano le urla beluine nei dialetti più ruspanti che escono dai locali truffaldini sui Navigli e a Brera. Là un milanese non mette piede dopo le 19.
D: – Parlando del tuo rapporto sostanzialmente d'amore con Milano, indichi come punto di cesura della storia cittadina la strage di Piazza Fontana, com'è cambiata la città a seguito di quel tragico evento? Com'era Milano prima e com'è diventata dopo?
R: – Preciso che sono sensazioni nate a posteriori. Ero troppo piccolo quando scoppiò la bomba, però certe cose si percepiscono anche da bambini.
Ho detto in altre occasioni che il 12 dicembre 1969 è stato il nostro 11 settembre 2001. Solo che non abbiamo mai saputo dimostrare affetto per la città ferita come hanno fatto i newyorchesi per la loro. Certo, qui tutto è in scala più piccola, ma l'affetto non si basa sulla misura.
Quel giorno Milano è diventata più cupa, più diffidente. Si è accorta che la mala romantica, con un proprio codice e relegata in ore e zone ben precise della città si era trasformata in un pericolo invisibile e diffuso, che poteva nascondersi anche tra chi stava al potere e chi credevi fosse lì per difenderti. Il ladruncolo della mala era umano, il terrorista era arrogante, convinto di essere migliore di te perché aveva letto male due testi di cattivi maestri.
Non è stato un cambiamento solo milanese, ma nazionale.
D: – In Francia esiste un forte dualismo città-provincia. Ritieni che in Italia esista un qualche contrasto tra metropoli e città di provincia? Ti vedresti in una qualsiasi città di provincia del centro Italia?
R: – In Francia hanno Parigi e intorno è tutta campagna. In Italia abbiamo sempre avuto le città, dove si immaginava che la vita fosse più libera, più divertente, più ricca. Noi non abbiamo metropoli, intese come agglomerati sconfinati di architetture banali e slum e isole di ricchezza. Abbiamo città molto piccole come estensione, in cui non ci permetteremmo mai di buttare giù il patrimonio storico. Da noi la scala è un’altra e si basa sulla concentrazione di saperi, know how, capacità e possibilità.
Un fenomeno che ha ben descritto Elio Fiorucci nell'intervista che ha rilasciato a OssoBook: Milano non è una grande città dal punto di vista territoriale, ma lo è dal punto di vista della concentrazione, perché ci trovi tutto e prima di tutti. Roma è più rarefatta, non ha mai visto svilupparsi il terziario, anche quello un po' funky degli anni Ottanta, quando ci si inventava un lavoro. La colpa credo sia della eccessiva presenza della politica che uccide la nostra capitale.
Mi vedo in una piccola città di provincia del Centro Italia, ma solo come turista! Cinquant'anni di abitudini e ritmi sono difficili da eliminare, penso ne soffrirei un po'.
D: – Ragionando in una prospettiva storica, in quale "sinistra" ti riconosci?
R: – In nessuna. Non voglio più sentire parlare di sinistra. Io sono progressista, autonomo e liberale. La sinistra non è più nulla di tutto questo. È retrograda, D'Alema è il nuovo Andreotti, Vendola è illuminato come un massaro dell'Ottocento. Gente capace di spacciare Letta per il nuovo.
D: – Quali sono le notizie o i fenomeni mediatici che ti irritano maggiormente?
R: – Le ondate di calore. I delitti irrisolti tra buzzurri tatuati delle zone depresse. Le eccitazioni legate a Internet (impazza sulla Rete, YouTube esplode, il Popolo della Rete si esalta). Le manifestazioni con spettacolino cromatico al seguito (calzini azzurri, sciarpa bianca, popolo viola). Gli innamoramenti per il guru di turno (Grillo, papa Francesco, Berlusconi, Santoro). Quasi tutte le notizie di politica interna divise tra chi vede la luce e chi non vede più nemmeno la lampadina.
Andrea Ialenti
Fonte: A. Ialenti, Interview, in «Labrancoteque», XIV, 2013.