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Madonna degli Alberi


Santuario Madonna di Loreto Capracotta
Il Santuario di S. Maria di Loreto agli inizi del secolo scorso.

Dal ricordo di una gita fatta col padre a Capracotta, scaturisce la narrazione della poetica leggenda della Madonna degli alberi, che appunti si venera in questa località montana del Molise.

L'immagine della Madonna è costituita da un semplice tronco d'albero che ogni tre anni viene trasportato in processione solenne dalla piccola cappella del bosco alla Chiesa del paese. Il volto della Madonna, scolpito nel legno, è quello stesso che apparve il giorno lontano del miracolo sulla cima del primo albero colpito dall'accetta di un gruppo di briganti intenzionati a distruggere la generosa foresta che ancora oggi invece cresce nella zona, ricchezza di tutti i montanari di Capracotta. Suggestiva la descrizione della festa che si viene sgranando con tono colorito ed insieme mistico.

Emergono anche tracce del tradizionale costume popolare del posto, come l'uso da parte delle donne di un pesante panno sul capo, la mantera, per ripararsi dal freddo dell'inverno. I carri sono decorati di fronde e pire di rami secchi bruciano per festeggiare, con la Madonna, lo spirito della foresta, della Natura Madre.

Le labbra semiaperte della Madonna, osserva la scrittrice, sembrano unirsi a contadini, a pastori, a signori nel canto che dice: «Venerate l'albero, amate l'albero, foglia per foglia, anch'io sono un albero...». Vecchie, sagge parole che richiedono di essere evidenziate più che mai oggi che l'equilibrio naturale dell'ambiente in cui viviamo si avvia ad essere gravemente compromesso.

Il racconto fu pubblicato su "Il Tempo" nel gennaio 1951.


Nicoletta Pietravalle

 

Madonna degli Alberi


Una grande impressione mi fece, tanti anni fa, in un felice giorno, salire col mio buon padre verso Capracotta che, a 1.400 metri sul mare, invece che di rose, è cinto di burroni: paese antichissimo, solitario, bello. In automobile, arrancando, una piccola cappella boschereccia attirò i miei occhi; sentinella d'una foresta immensa, a un miglio dall'abitato, che ha ancora un nome romantico, Aquilonia.

Era la prima volta che la vita dei boschi si accostava a me, terribile, intangibile: un fiato magnifico, cocente quasi (e faceva freddo), usciva dai tronchi compatti, luccicanti, perché il sole entrava come un'insidia dal basso e batteva dall'alto, in zone di fuoco solitarie. Parevano i fuochi di bivacco di quelle legioni che lì si erano attendate, mille anni prima, e pareva ci fossero ancora.

La Madonna del legno, la Madonna della foresta le vigilava; tutti, con quel freddo asciuttissimo, tagliente, fanno per pane il fuoco, vivono del fuoco. E di questa Madonna, silenziosa, alla quale i nativi offrono una festa, tra le più singolari del mondo, io voglio parlare. Perché difende i sacri alberi e nello stesso tempo dà la fiamma benefica, la brace d'oro a tutti i fedeli. Vicino a ogni casa della campagna e del paese, infatti, c'è il suo monumento; altissime pire di rami segati per l'inverno. E quel giorno così lontano, limpido, era proprio la sua festa.

La cappella era vuota ed aperta; rossa, umida, con piccole candele che bruciavano sull'altare come lacrime di gioia. La Madonna era stata portata al paese.

– C'è una leggenda – disse papà – fattela raccontare.

Me la raccontarono; odora di resina, è molto poetica ed è barbara.

 

Un dì lontanissimo orde di predoni decisero di abbattere la foresta, di venderla e di fabbricarci uno strano paese: erano anche persuasi che nel suo cuore cupo fossero nascosti antichi tesori. L'albero alfiere era meravigliosamente bello, rigoglioso, giovane. Appena l'accetta del brigante arriva a recidere il tronco, cade recisa pure la mano, e la Madonna compare in cima: il solo viso scintillante, sorpreso, tutto il resto è un ramo, pieno di foglie fresche, beate. Il secondo brigante allora, schiumando rabbia, appicca il fuoco all'albero, ma anche la sua mano nera, contorta, brucia come una foglia secca... Tutti scappano, urlando, inorriditi. Nessuno osa più, da allora, infrangere la legge severa della foresta; la sua ricchezza è di tutti i montanari: appartiene al paese; è l'ornamento invincibile del paese.

Però, che bel miracolo! I valligiani di lì, i montanari del tempo di Betlemme, tagliarono il ramo sacro, benedetto. La Madonnina, infatti, ha il corpo d'un tronco d'albero, coperto di seta azzurra, ingioiellata come una regina di campagna. Sui capelli bruni, delicati, dondola un diadema d'oro fino: con la sua aria curiosa e selvatica, quando la portano in processione, di sera, pare che volti gli occhi qua e là, sbigottita dalle luci... Sorride meravigliata; non ha gambe, né braccia, ma nessuno se ne accorge. Spuntano solo due manine rosee dal manto con una fronda di bosco in mano. Con quel sorriso timido di vergine, piena di solitudine, e la bocca semiaperta canta con le contadine, i contadini e i signori che la seguono.

– Venerate l'albero, amate l'albero, foglia per foglia, anch'io sono un albero...

Mi ricordo quella luce viola fuggente del cielo e delle fiaccole di resina che io guardo molto commossa, e mio padre, che mi stringe la mano, dicendo:

– Capisci che cosa è questo? Il popolo si esprime meglio di noi: è vicino alla verità.

Mi pare di essere sospesa fra cielo e terra; fa un freddo acutissimo, siamo alle soglie dell'inverno. Ma i fuochi ardono da tutte le parti in onore della Vergine del bosco e i famosi carri del legno, con i muli infioccati e con altre penne barbariche in testa, seguono la Madonna.

Sono i carri antichissimi da trasporto. Alte bighe che hanno un ramo tinto di rosso per insegna; tutti di ocra e porpora, brillano di strani disegni guerreschi. Ma come belli quegli aurighi in piedi, a capo scoperto, angolosi giganti, sanguigni d'un sangue vergine come la linfa dei boschi. Sulla piazza tirano le briglie cariche di sonagliere e i muli si arrestano, coi lumicini delle fiaccole negli occhi, scalpitando. Massicci, ombrosi, non paiono neri ma turchini, non biondi ma d'oro antico; muli enormi, babilonesi, attorno a quella piccola Madonna nana che è un tronco d'albero di cui sentono l'odore meraviglioso di resina, da secoli e secoli. Si dispongono in cerchio. Lei passa ondeggiando, si volta, li benedice. Un alto nitrito è il loro evviva, poi la scortano sino alla cappella. Lei torna alle sue foreste; col vento della selva che le canta una canzone, aspra d'inverno, tepida e sussurrante d'amore l'estate.

Mi ricordo le donne di Capracotta, così severe, miti. Portano tutte un greve panno in testa, la mantera, per ripararsi. Quella sera mistica, chiedevano il pane del legno, fuoco per le loro case sepolte d'inverno, quando la neve arriva persino alle finestre dei palazzotti e nessuno può uscire più. Le loro voci trafiggevano l'aria lamentose, ma la processione è piena di gioia e di confidenza. Ognuno agita un ramicello, il paese è un grande albero patriarcale, brillante, coi rami di fuoco; la gente stessa, con quei crudi profili, le facce scarlatte, pare scolpita in un legno di presepe.

Quando un anno fa, questo paese tanto amico a mio padre, minato e distrutto dalla guerra ultima e ostinatamente riedificato, arrivò agli onori della cronaca cittadina, per lo spazzaneve regalato dai Capracottesi d'America, io capii che era tale e quale come lo rammentavo, e che solo la generosa foresta li ha assistiti quando la neve li ha bloccati e assiderati per mesi.


Lina Pietravalle

 

Fonte: L. Pietravalle, Novelle molisane, a cura di N. Pietravalle, Casa Molisana del Libro, Campobasso 1975.

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