Londra, luglio.
Era inevitabile che, dopo gli spaghetti, i ravioli e il caffè espresso, anche la pizza napoletana conquistasse una posizione ragguardevole nelle preferenze gastronomiche del popolo britannico. Tanto vero che sempre più si vede aumentare a Londra il numero dei locali che offrono alla affezionata clientela la possibilità di gustare un nuovo Italian flavour; un cibo - dicono loro - completo ed insuperabile nella sua dosatura fra i carboidrati contenuti nella farina di grano, le vitamine del pomodoro, il grasso delicato dell'olio di oliva e gli elementi (di cui mi sfugge il nome) che compongono mozzarella e formaggio.
Battuti i Francesi
L'autorità degli Italiani nel campo alimentare, ha oscurato - incredibile a dirsi - la fama secolare degli chefs francesi; non perché questi ultimi siano da meno dei nostri, ma per la semplicissima ragione che le specialità gastronomiche italiane si rifanno ad una cucina sana e "casareccia" non sofisticata, che più facilmente si adatta ad una produzione su scala quasi industriale per "consumi di massa". La pizza alla napoletana, sotto questo aspetto, finirà forse per superare l'attuale primato degli spaghetti, date le difficoltà che si incontrano per servire questi ultimi come si conviene; senza cioè cadere nell'imperdonabile errore di farli passare di cottura.
A questo proposito, merita d'esser raccontata la storia del marinaio italiano Benito Conti, imbarcato sul mercantile tedesco "Kondor" che fino a ieri si trovava ormeggiato nel porto di Topsham. Il povero Benito, unico Italiano in un equipaggio teutonico, per settimane e mesi di navigazione, ogni giorno che il buon Dio mandava in terra, a pranzo, a cena e perfino all'ora del caffelatte, si vedeva metter dinnanzi enormi porzioni di spaghetti che i suoi compagni divoravano golosamente e che a lui, invece, facevano venire il voltastomaco, ridotti com'erano nelle condizioni di una gelatinosa colla da manifesto. Arrivato il "Kondor" a gettare le ancore in un porto britannico, Benito ha compiuto il passo più grave che un marinaio possa decidere in territorio straniero: quello della diserzione. Scappato come un ossesso da quello che ormai considerava il suo purgatorio galleggiante, ha infilato la porta del più vicino ristorante ed ha ordinato una mezza dozzina di uova frittellate, cotte con la pancetta di maiale come si usa in Inghilterra. Ma si era appena accinto ad aggredire quel piatto così gustoso, che già la polizia portuale gli metteva gli artigli addosso chiudendolo, senza troppi complimenti, in guardina.
– O torni a bordo della tua nave – gli fu detto – o finirai l'anno qua dentro.
– Per favore – rispondeva come un automa l'affamatissimo Benito facendo mostra di non intendere – datemi un altro piatto di uova sfrittellate.
Accontentato e sazio, si rifiutava ostinatamente di tornare fra gli incubi degli spaghetti collosi a bordo della nave tedesca. Per cena chiedeva cotolette di agnello con contorno di piselli e soltanto il pomeriggio seguente, satollo di roast-beef e persuaso dalle autorità consolari, decideva di farsi riaccompagnare da due poliziotti a bordo del "Kondor" che è subito salpato alla volta di Copenaghen, lasciando gli Inglesi sbalorditi per il fatto che un Italiano possa talvolta preferire la galera agli spaghetti.
Ma, per tornare alla pizza napoletana che ci ha fornito spunto per queste divagazioni, dovremo occuparci di un altro personaggio di sangue italiano che risiede ormai stabilmente qui a Londra e le cui vicende non mancheranno certo di destare interesse a Capracotta suo paese natale ed o ancor più, forse, a Frosinone dove per una ventina d'anni egli ha esercitato la sua arte. Il nome è Sebastiano Di Cesare, la professione: "caciaro", l'uomo che in un laboratorio della Central London, a pochi passi da Tottenham Court Road fabbrica uno degli ingredienti essenziali per la pizza napoletana: una mozzarella, cioè, che nulla ha da invidiare ai prodotti originali dell'Abruzzo e della Ciociaria. Il termine mozzarella, in verità, suona un po' ostico alle orecchie degli Inglesi e forse sarà bene, in seguito, trovare un nome dal suono più internazionale attaccato al suo passaporto italiano, è ormai da tanti anni uno dei più noti esponenti del cinema britannico. Zampi ha qui un fratello proprietario del ristorante "La Romanella" in Wardour Street - la strada delle Case cinematografiche - dove si danno convegno attori e registi e dove, un paio d'anni fa, si cominciarono a servire alla clientela anche pizze alla napoletana condite con un tipo di latticino che lasciava alquanto a desiderare. Insisti oggi e insisti domani, lo Zampi, regista e buongustaio, riuscì a convincere il fratello ad avventurarsi nella impresa di fabbricare in Inghilterra un prodotto che prima d'ora sembrava monopolio tipico di alcune zone dell'Italia Centro-Meridionale.
Sebastiano Di Cesare, mentre con larghi movimenti di mestolo pescava latte cagliato da un gran vascone fumante, mi ha rievocato alcune pittoresche frasi di compatimento pronunciate dai suoi compaesani quando comunicò loro che aveva deciso di accettare l'incarico di far mozzarelle e provoloni nientemeno che a Londra.
– Ma tu sei matto – gli dicevano fra l'altro – come vuoi che ti riescano in un clima freddo; e come riuscirai a farti capire dagli Inglesi?
"O sole mio"
L'esperimento ebbe inizio proprio a Frosinone dove fu inviato per aereo da Londra un grosso bidone di latte inglese che venne trasformato in mozzarella rivelandosi eccellente per questo scopo. Pochi giorni più tardi, Sebastiano arrivava alla stazione di Victoria, si iscriveva ad un corso accelerato di lingua inglese e cominciava a manipolare i suoi candidi prodotti nel locale a pianterreno vicino alla Tottenham Court Road dove il sottoscritto lo ha scoperto per caso recandosi a far riparare l'automobile da un meccanico che lavora poche porte più in là.
Ora l'attività del "caciaro" di Capracotta non si limita più alla confezione delle classiche mozzarelle; dalle mani di Sebastiano e degli aiutanti che ha chiamato di rinforzo dal paese natio, escono anche provoloni, ricotta, caciotta e "fior di latte" che ribattezzato, quest'ultimo, col nome "Milk Flower Cheese", viene distribuito ai negozi avvolto in una carta sulla quale spiccano i colori dell'Union Jack e tanto di dicitura "Made in England". Chissà che una volta o l'altra questo delicato latticino non finisca per tornare di rimbalzo in Italia ed il nome esotico non lo faccia diventare alla moda con il tè delle cinque. Del resto, in argomenti di questo genere, abbiamo visto anche di peggio. Qui in Inghilterra per esempio si vende, a centinaia di migliaia d'esemplari, un disco inciso da Elvis Presley sotto il titolo "It's now or never", e da cui la voce del cantante americano si sprigiona dolce, appassionata di vibrazioni nostalgiche. Le parole - come purtroppo oggi avviene quasi sempre per le canzoni - lasciano molto a desiderare; ma la musica è quanto di meglio ci si possa attendere da un tune a tempo di fox lento. Il guaio è che, dopo le prime note, uno si accorge che la musica del fortunatissimo "disco novità" gli è nota, anzi molto famigliare, e subito viene identificata come la più famosa delle canzoni napoletane: "O sole mio". Dal Vesuvio all'America, dall'America all'Inghilterra e dall'Inghilterra all'Italia dove a quest'ora sarà senza dubbio ridiventata "popolarissima". Lo stesso - per fare un altro esempio - per le automobili che i nostri carrozzieri vengono a disegnare in Inghilterra e che qui sono vendute con la etichetta reclamistica dell'Italian style, ma che, esportate in Italia, suscitano l'ammirazione degli anglofili per la «sobrietà di linea tipica del buon gusto britannico». Per non parlare delle stoffe "Made in England" e via di seguito.
Sta di fatto che, oggi come sempre, resta valido il vecchio proverbio per cui nessuno è profeta in patria. Neppure quel Sebastiano Di Cesare che, in una stradetta londinese, poco distante dalla Tottenham Court Road ingombra di autobus rossi a due piani, plasma provoloni e mozzarelle per i pizzaioli del Regno Unito.
Antonio Perrini
Fonte: A. Perrini, Un molisano ha preso gli Inglesi per la gola fabbricando in piena City mozzarella fresca, in «Il Tempo», XVIII:192, Roma, 12 luglio 1961.
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