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Il mostro sotterraneo


Terremoto

A morire oggi tocca a Checco, 87 anni. Il lutto manda in scompiglio la piccola comunità resistente di Castel Sant'Angelo sul Nera. Mentre le ruspe strappano lembi di mura paesane, Nello replica mogio: «Meglio morire che continuare a soffrire». Non si sa se la frase sia riferita alla morte del suo anziano amico Checco originario di Vallinfante, oppure al suo amato paesello, sebbene Nello sia nato a Rapegna, pochi passi più a sud.

«Qui mi annoio. Ho 82 anni, altri 82 non ne camperò. Se ci fosse qualcosa da fare mi risolleverei ma le giornate scorrono monotone». Il cappello blu da pescatore è ben stretto sulla testa tonda e pelata dell'uomo, le mani robuste faticano a entrare nelle tasche dei pantaloni.

Gli automezzi pro SAE alzano una quantità spropositata di calce e le forze dell'ordine, irrequiete, dondolano dall'altra parte della strada. «Se tornassero in vita i vecchi di una volta scapperebbero via di fronte a questo sviluppo. Ogni cosa ha una fine, ci siamo spinti troppo oltre. Questo terremoto non ci abbandonerà mai. Nella roulotte sto bene; in confronto a quando andavo al pascolo con le pecore e dormivo per terra è un lusso, mi sento quasi un re».

Un enorme arbusto di sarcia, pianta inodore che cresce sempre vicino l'acqua, tocca quasi il tettuccio della roulotte di Nello, il quale cambia argomento bofonchiando, virando sul tema della guerra, una costante nelle memorie dei nonni. «Lo zio di mia moglie è stato ucciso lungo la strada per Visso. Spesso mitragliavano nel bosco alla cieca, sia SS che partigiani, e noi ragazzini ci arrampicavamo sui rami dei tassi per sfuggire ai proiettili. A parte un giorno che il cielo si oscurò di aeroplani e capimmo che erano arrivati gli americani. La guerra ci ha tirato fuori dalla miseria, da una vita da condannati fatta di schiene piegate e patate rancide. Il progresso... tutto è cambiato ora, pure l'inverno. Non fa più così tanta neve come 70 anni fa, quando facevamo gallerie sotto i cumoli di nevischio».

Nello si allontana zoppicando e lo immagino mezzo storto non perché invalido o spossato, ma perché si muove nel contrattempo, nel ritardo dei nostri giorni, arrancando il passo di fronte una società imborghesita che se ne frega di tutto. «Ci vediamo il prossimo inverno, se Dio vuole».

Ma contro ogni pronostico, Nello rimane nei paraggi, scrutandomi dalle sue postazioni invisibili. Attende al mio fianco per non lasciarmi solo, fino all'ora in cui una Jeep, incuriosita dal mio pollice proteso al cielo, si ferma aprendo uno sportello cigolante. Il tatuaggio preciso di un mondo appare sull'avambraccio irsuto di Stefano, di mestiere benzinaio. «La mia casa fa parte del 2% che sono rimaste intatte, le altre sono da buttare. Non chiedermi il perché di tanta fortuna. A causa dei crolli continui però non posso rientrare e sono costretto a fare il pendolare fino a Castelraimondo, nella casa di mia madre. Anche il sottosuolo così come le fonti di metano hanno avuto problemi con le scosse, obbligandoci a tener chiuso questa stazione per settimane».

L'epicentro del sisma è stato registrato dietro al Monte Cardosa, nel paesetto di Campi che è già suolo umbro, raggiungibile in svariate ora di cammino.  Ma dal fondo dello stradone appare miracolosamente un SUV coi vetri oscurati guidata dal cinquantenne Bruno, un imprenditore di Forgaria nel Friuli (Udine), primo al mondo - a detta sua - nella fabbricazione e collaudo di archi da gara. Discutiamo all'interno della sua cyber-macchina raccatta viandanti. «Sai a cosa porta un sisma? Solo al beneficio. A parte i morti, che il giorno seguente tutti dimenticano come i titoli conclusivi di un film, il resto è fatto esclusivamente di cose positive. A me ha cambiato la vita e mi ha reso ricco! Avevo 20 anni, venivo da una tale miseria che vedevo solo buio. Poi ho realizzato che con un disastro simile avevo da lavorare per i prossimi trent'anni. I manovali diventano carpentieri, i contadini diventano manovali, c'è ricchezza per tutti, credimi».

Con una scusa zompo fuori dall'abitacolo e guadagno qualche metro di collina ventosa. Respiro. Un cartello indica Campi Vecchio; pare di toccare il cielo e in nove passi sono solo nel fitto del bosco. Rallento il passo come suggerito anni fa da un allevatore di Capracotta. Non vorrei che finisse troppo in fretta questa pace, perché ogni volta che salgo e ritorno sulle Montagne degli Dei, mi sembra di tornare a me stesso. Da quassù fa quasi spavento vedere quanto poco spazio occupano gli umani nel paesaggio.

L'uomo e le sue chiese, le sue scuole, i suoi commerci, i suoi partiti, i suoi campi agricoli paiono quasi irrisori al cospetto del bosco. Contemplando dall'interno il ventre della selva scura, si ha quasi paura di restare soli. Mille occhi ti osservano, mille (r)umori ti assalgono. Ricordi, pentimenti, rimorsi, malinconie.

Steso tra un mucchio di foglie lisce come cenere, scruto un capriolo maschio aggirarsi a pochi metri di distanza. Sono sottovento e il mio odore non arriva alle delicate narici del quadrupede, il quale vortica attorno a un robustissimo faggio che pare sostenere tutta quanta la volta celeste come la cima del Redentore sulla piana di Castelluccio.

Via dell'Istrice è un mosaico di tegole rotte e pavimenti sfondati; una macchina senza ruote giace morta a fianco di una betoniera carica di cemento indurito. Una staccionata e un gregge improvviso di pecore cicciottelle fungono da diversivo per eludere una ronda dei carabinieri che pattuglia la zona rossa.

Seguo gli scaltri ovini e insieme, complici fuggiaschi, tocchiamo terra umbra, osservando le prime case sfasciate di Campi. Nei pressi dello spiazzale svetta l'albero tricolore del Piantamaggio, testimone di un'antica tradizione popolare. Gianpaolo, nativo di Campi, è il Presidente del famigerato "Club Zozzoni Campi".

«È come un lutto, solo che al lutto non c'è rimedio. Qui invece confidiamo nel rivivere il nostro paesetto, prima o poi. Sarà cambiato di certo, ma lo rivedremo. Più il tempo passa però, più mi pare d'odiarlo quel paesetto lassù, perché è come se non avesse identità.

Quel giorno, per circa trenta minuti il terreno ribolliva, borbottava, come se un mostro cattivo spingesse dal di sotto della crosta terrestre» racconta Gianpaolo con smorfie e latrati. «E pensare, ripeto, che Campi era viva: organizzavamo ogni anno mille sagre, 250 persone a ballare, la festa della Sangria! Spesso vado su a Campi Alto a raccogliere qualche fico e ripenso a quelle estati che non potevi passeggiare dalla gente che c'era...».

«Ora invece non se passa dai sassi» interviene sornione Lorenzo, 19 anni, muratore e aspirante cuoco.


Matthias Canapini

 

Fonte: https://www.unimondo.org/, 19 marzo 2020.

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