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Passi di memoria


Panorama di Capracotta dalla villa comunale.

La memoria si confonde tra i ricordi come nello stordimento che segue una perdita, un tradimento, al punto che rincorrendo cose, luoghi, tempi, persone, si muove in una giostra vorticosa e quasi sfinita vacilla attorno ad un'identità sempre più irrisolta e misera nel tentativo di fare un bilancio fra cosa rimane e cosa è finito.

 

La sciònna (culla di legno) che una notte di luna piena ha accolto nelle fasce un fagottino rosa è stata demolita insieme alla radio di legno stinto, alla macchina fotografica americana, alla bicicletta militare e altro ancora nella foga modernista degli anni '60; pure la valchèra (tavola per lavare i panni) consumata dall'uso è finita nel fuoco. Le cose sopravvissute sono poche: panni, ricami, merletti riposti in un cascióne (cassa) da cui mandano zaffate di naftalina. Superstite anche un bastone d'avellana, un vecchio distintivo dello Sci club, una sola racchetta, un orinale di ceramica, alcune fotografie, delle cartoline ingiallite.

È triste contare le presenze e le assenze perciò la mente cerca altri approdi in immagini apparentemente slegate che si rincorrono e quasi si sovrappongono.

 

Donne spingono capre e pecore fuori dal paese per la strada sassosa in un allegro tintinnio che si perde lontano dalle ultime case. Maiali trascinati a stento muovono le loro rotondità scomposte, sfuggono ribelli alla presa, rotolano a terra mentre più mani li riducono a fermarsi tra le imprecazioni e le risa. La confusione di uomini, mezzi e animali rompe la quiete del primo mattino alla fiera dell'8 settembre tra i grugniti, il belare, i nitriti, il muggito; forti gli odori nella baldoria generale, forte persino il silenzio quando tutto finisce.

Un colpo secco fa tremare l'aria e la montagna fa eco, un altro lo segue, ancora, ancora… sembra che le rocce vogliano rotolare a valle, è invece il segnale della festa a cui presto rispondono le note vibranti delle campane spinte nel vuoto.

Quel giorno l'abito inamidato di bambola è una civetteria per la fanciulla, come un confetto riccio di zìta (matrimonio).

 

Le lenticchie stese al sole scricchiolano, il grano indora, le foglie di granturco seccano, il bucato imbianca rubando il prato alle farfalle, ma se il vento e la pioggia improvvisi rivoltano, allora è un correre quasi disperato e le braccia femminili si affannano al raccolto.

Gli uomini tornano dai campi o dalla montagna trascinando il passo: carichi e scarichi, portano e riportano arnesi, ceste; rovesciano fasci di céppe (rami secchi), ciocchi di legna, balle, sacchi, mentre in un sollievo che sa di resa anche gli animali si scuotono, mostrano il dorso nudo e lucido.

Gli zoccoli del cavallo battono sul selciato per l'impazienza, la stanchezza e il caldo; l'uomo lo colpisce sui fianchi a fargli sentire di essere il padrone; l'animale legato si rivolta assestando un calcio potente che ferisce: la giornata di duro lavoro a trasportare fieno si conclude tra le urla, il dolore, per l'uno, per l'altro, per una fatica che talvolta abbrutisce.

Il cielo è pieno di stelle, le pietre delle case sono calde, l'aria è ferma nella notte di agosto e un mietitore riposa a terra, libero, sfatto nei suoi panni, forestiero e padrone del buio.

 

I bambini rincorrono i galli per poi fuggire, affascinati assistono al pigolio dei pulcini intorno alla chioccia, accarezzano il muso umido di latte dei vitelli, prendono a sassate i nidi delle rondini, catturano le lucciole tra tenerezze e sfide; vanno in cerca di rospi al lago della Vecchia per le viarèlle (sentieri) segnate dalle vacche, tra le cataste della legna odorosa di taglio a fare pipì pensando di compiere imprese eroiche, a nascondersi nel fieno, a stare nei campi per il taglio del grano, ad assistere alla trebbiatura sulla spianata del Cuasìne (piccola casa con aia) riportando nei calzini e nei capelli triti avanzi di paglia.

Il sonno sereno, felice di giornate intense, spensierate, prende quasi di colpo sul letto di frùscia (seccume di granoturco) che manda odore acre e sfrigola ad ogni movimento; al mattino il latte caldo appena munto, quasi giallo di panna riempie di odore zuccherino le narici. Il risveglio è sentire l'aria frizzante, l'acqua fredda sul viso, il profumo dei pini, il vento nelle gambe per precipitarsi fuori.

 

Quando il temporale scuote gli alberi, la nebbia poi scende avvolgente, il cuore si spaventa un poco e pensa ad una magia, la stessa del fuoco che danza nel camino: gli stessi bagliori, le stesse trasparenze misteriose mandano brividi in corpo; allora il rifugio è un portone, una rùfa (vicolo), una stalla, un abbraccio, una risata, una favola breve. Piove, le nuvole basse, minacciose, confondono gli spazi; l'acqua lava, ruscella, allora 'Ntunina (Antonina) si fa il segno della croce e si stringe nella mantellina mentre guarda fuori e subito si ritrae al lampo che taglia Monte Campo.

S'invocano sant'Antonio, santa Lucia, san Sebastiano, san Giovanni, quei santi protettori, familiari come fossero tanti zii quanti il vicinato, una parentela fitta, inspiegabile, ma rassicurante anche nella statuaria immobilità delle processioni e delle immaginette sacre.

L'odore dell'incenso e dei lumini che emanano le chiese è inconfondibile e penetrante; dentro si parla a bassa voce, a capo coperto si recitano orazioni e si sorride impertinenti al latino degli adulti.

 

Le mani torte dei vecchi ai quali si rivolge uno sguardo distratto sono virtuose: lavorano la calzetta in un intreccio veloce di ferri, dal vapore del caldaio traggono forme di scamorza, modellano la pietra ruvida e il legno fino a mostrarne il nobile cuore.

Tatuccio (nonno) racconta di streghe, di briganti, di lupi, allora il tempo si arresta tra verità e fantasia mentre dalle tasche tira fuori pochi gioielli di bosco, lamponi e fragole profumate.

Nel portone sempre aperto si stagliano volti più o meno conosciuti che riempiono le giornate estive di curiosità, di faccende, in un presepe contadino dove incontrarsi significa ritrovarsi ancora dopo i rigori dell'inverno. L'aria s'impregna di profumi domestici che risvegliano il corpo e lo spirito a piacevoli convivi nella tradizione di una realtà agreste e pastorale.

 

La comunella è l'occasione della crescita, l'esperienza di un breve viaggio, la scoperta di complicità che si articolano come i passi tra le rocce: da San Giovanni a Santa Lucia, andata e ritorno passando per la Uardata (zona di pascolo); assetati e felici della libertà ci si ritrova a consumare pane e supresciàte (salame), a cogliere fiori e uva spina, a scacciare insetti e a bagnarsi alla fonte Brecciaia, poi l’accogliente frescura della pineta è già il paese: le vacche rientrano pesanti alle stalle per la mungitura e i ragazzi tornano alle case per ripassarsi il giorno.

Bastano poche stagioni e il fiocco tra i capelli si scioglie inseguendo le note di una canzone e le distanze si dilatano verso altri orizzonti. La valigia dell'infanzia è un po' consunta e non basta più: ci si allontana per altre vie e il bagaglio cresce, l'anima sorniona però custodisce ancora il ricordo del passato.

 

Il cuore in aiuto della memoria si annoda e si apre di continuo, poi sul punto di sciogliersi in lacrime fa gli ultimi sforzi di salvare quello che rimane degli affetti sognando di poterli ancora condividere.


Flora Di Rienzo

 

Fonte: F. Di Rienzo, Passi di memoria, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. I, Cicchetti, Isernia 2011.

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