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Andata e ritorno


La stazione di S. Pietro Avellana-Capracotta, 9 novembre 1960.

Andata

Per molti anni della nostra giovinezza Capracotta è stata l'unica meta delle vacanze estive dopo la chiusura delle scuole. Si prendeva il treno della linea Roma-Pescara all'alba ancora assonnati, ma euforici per la partenza. Si saliva in carrozza con le valigie di cuoio e tela gonfie al punto che per chiuderle noi piccoli dovevamo sederci sopra e i grandi a fatica le sistemavano nelle reticelle degli scompartimenti, non senza lamentele e qualche rimprovero per aver portato troppe cose. Il fischio del treno però poneva una tregua.

Era forse per l'emozione del viaggio, per l'aria fresca o la gioventù, ma l'appetito si faceva sentire presto e noi bambini non vedevamo l'ora di addentare le fette di pane farcite di frittata, di carne panata, e tanto altro che una volta aperte mandavano un misto di odori per tutte le carrozze. Intanto si ciondolava dai sedili ai finestrini guardando il paesaggio incuriositi, sbriciolando qua e là, tentando anche la lettura di qualche giornalino per poi crollare in brevi pisolini dai quali ci si svegliava infreddoliti e stropicciati, ma non ancora giunti a destinazione. Finché a Sulmona la lunga sosta con i bagagli trascinati a forza ci costringeva all'estenuante attesa della rituale sistemazione di due carrozze della linea montana per Carpinone; croce e delizia salire su quel treno in miniatura, che lento e rumoroso s'inerpicava tra le montagne! Il paesaggio man mano cambiava e quanto più lo sferragliare era ansimante, tanto dai finestrini entrava il profumo di nuove altezze. Le stazioncine linde e famigliari risuonavano di poche voci e negli scampanellii accoglievano qualche raro turista, mentre si contavano le rimanenti fermate: Pettorano sul Gizio, Campo di Giove, Rivisondoli..., finalmente quando si era a S. Pietro Avellana voleva dire essere quasi arrivati, perché una corriera aspettava i viaggiatori per salire a Capracotta. Il piccolo mezzo mostrava i segni dell'età, il rumore che faceva salendo a fatica per le curve ripide provocava inevitabili considerazioni in dialetto e re cuócce viécchie sballottava i bagagli appena trasbordati tra i commenti e qualche risata rassicurante dell'autista che nella precarietà si sentiva a suo agio, ma noi piccoli eravamo stanchi dopo tante ore e se qualche manovella cadeva, un secchio si rovesciava, un pacco rotolava sullo sfortunato di turno, l'odore di caciotte completava il resto della nostra ubriacatura, unica consolazione era la bellezza del bosco e la vista del cielo color zaffiro, mentre s'intravedeva il profilo familiare delle montagne. All'ultima curva improvvisamente si scopriva la distesa delle case, la gradualità dei tetti, l'inconfondibile mole della chiesa e l'emozione ci assaliva. Per le vie del paese la corriera mandava colpi di clacson e lasciava agli incroci i viaggiatori; per noi l'ultima fermata era a piazza E. Gianturco, mentre la nonna aspettava in finestra il nostro arrivo e salire alle ultime case era una festa e una conquista.

 

Ritorno

Era ancora buio quando ci si alzava per sistemare i bagagli e mentre i grandi si agitavano agli ultimi preparativi, i piccoli si stropicciavano gli occhi insonnoliti e disturbati dal risveglio forzato. Un odore di caffè appena fatto si diffondeva per le stanze misto a quello più dolce del latte riscaldato. Lungo il corridoi si mettevano le valigie e altra paccottiglia. Si parlava sottovoce per non disturbare la quiete che regnava, seppure rotta dal primo canto del gallo e dallo scampanio di qualche vacca che dalla stalla era già pronta al pascolo. Intanto ad uscire nell'aria fredda del mattino ci correva un brivido per il corpo al punto che non si sarebbe detto che fosse estate se la limpidezza del cielo e i nostri indumenti leggeri non lo ricordassero.

Arrivati alla spicciolata lungo la discesa, dopo i saluti alla nonna, si attendeva la corriera e si sbadigliava guardando in fondo alla strada per cercare di avvistarla e quando la si vedeva era un sollievo. Sistemati i bagagli, il piccolo mezzo sbuffante zaffate di nafta cominciava il viaggio in discesa. Accoccolati nei sedili vedevamo il sole alzarsi dietro a Monte Campo e tingere di rosa il cielo, le rocce, qua e là le pareti delle case. Ci si allontanava ormai sempre di più ripassando la strada con le sue curve un po' sballottati e malinconici perché consapevoli di chiudere una bella parentesi ed il bosco con la sua bruma notturna dava il definitivo taglio prima di giungere alla stazione ferroviaria di S. Pietro Avellana dove il treno proveniente da Carpinone e diretto a Sulmona ci riportava a casa. La stazioncina era quasi deserta e l'arrivo delle carrozze stridenti sulle rotaie rompeva il silenzio. Anche questo trasbordo era malinconico come lo sferragliare sui binari. Intanto l'aria si faceva più calda e già si rimpiangeva la purezza di quella lasciata. Ci si liberava della magliette e dai finestrini aperti si osservava il paesaggio sempre più bruciato che accentuava in noi piccoli il desiderio di bere fin quando si giungeva alla stazione di Sulmona, animato crocevia di viaggiatori accaldati. L'ultimo cambio dopo una lunga attesa ci riportava nel treno diretto a Roma e qui in una carrozza dai sedili di velluto bordeaux che ci bruciava le gambe si compiva il resto del viaggio. Le ore trascorse diventavano penosamente lunghe e quando si arrivava a destinazione si era stanchi, sudati e spossati da un'aria terribilmente pesante e arsa, tanto più che riaprire la casa era come spalancare un forno e disfare i bagagli, anche loro bollenti, significava levare il tappo a uno straordinario miscuglio di odori che avevano impregnato ogni cosa: fumo, pecora, formaggio, tradivano un'origine per noi inconfondibile.


Flora Di Rienzo

 

Fonte: F. Di Rienzo, Andata e ritorno, in «Voria», II:5, Capracotta, dicembre 2008.

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