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Polvere di cantoria... sulla neve (II)


Sciatori capracottesi al Prato di Conti.

Quando un uomo muore,

muore con lui la sua prima neve,

e il primo bacio e la prima battaglia...

Tutto questo egli porta con sé.

Rimangono certo i libri, i ponti,

le macchine, le tele dei pittori.

Certo, molto è destinato a restare,

eppur sempre qualcosa se ne va.

È la legge d'un gioco spietato.

Non sono uomini che muoiono, ma mondi.

[E. Evtushenko, 1972]


La fine degli anni '60 ed i primi anni '70 furono un periodo di transizione e profonda modifica della società sotto tutti i punti di vista: tecnologico, politico e sociale. Nella realtà del paese l'emigrazione fu un altro passaggio drammatico. Vecchio e nuovo si fronteggiavano e non senza poche tensioni. Ma la neve portava ad una tregua: tutti a sciare!

Eppure anche qui si manifestava una pittoresca e strabiliante coesistenza di vecchio e nuovo. Dalle soffitte, dalle cantine e dai ripostigli, nel nome del puro divertimento, venivano tirate fuori, con la partecipazione anche di chi tornava in vacanze e la fornitura dello Sci Club ai giovani atleti, le più disparate attrezzature di una caleidoscopica rassegna vivente della storia degli sport invernali. Andava bene tutto, purché funzionale ad affrontare una discesa.

Le tavole da sci erano ogni foggia: da quelle interamente in legno costruite dai falegnami di Capracotta, che ricordavano il rumore indiavolato della fresa per modellarle, a quelle di fabbrica. Le punte, in alcuni casi, erano fortemente rialzate: ci si potevano attaccare delle bandierine come su delle aste. Erano sci dedicabili al fondo. Altre punte erano basse e con uno sperone ligneo verticale per evitarne l'impuntamento nella neve. Erano sci pesantissimi e la costola dorsale di rinforzo, presente in alcuni, contribuiva non poco al peso, tutti senza lamine: certamente non il massimo del controllo sulle virate. Evoluzione intermedia gli sci in legno plastificati dotati di lamine modulari avvitate alla soletta con puntale metallico di rinforzo a cappa laterale (stile "stivale western") e tasselli metallici in coda. Il mio primo paio blu Pony in legno di Hickory, marca Lamborghini, perse rapidamente alcuni tratti di lamina e l'umidità cominciò ad aggredire alcuni punti del legno ma ci scendevo bene lo stesso!

Va tenuto conto che quando gli impianti non funzionavano la risalita si effettuava "a scaletta", lenta ma poco faticosa, o a "spina di pesce" in avanti, veloce ma si arrivava in cima col fiatone. La disperazione si raggiungeva con gli sci in spalla: se non avevi le cinghiette di raccolta eri spacciato. Gli sci diventavano due anguille che rifiutavano di restare accoppiati e allineati e, "scrociandosi", ti massacravano la già sofferente spalla che, dopo qualche giorno, diventava di un viola che era un amore! Sostenerli con le racchette a doppio incrocio su tutte e due le spalle era un altro pio tentativo, senza contare il rischio di spadellarsi senza la protezione di almeno un braccio con aggiunta, quindi, di altri lividi sul "lato B".

Gli anni '70 portarono gli sci in fibra di vetro: più leggeri e resistenti nonché affidabili e con prestazioni elevate. Erano gli anni della Spalding-Persenico con i colori sgargianti. Mitici i Sideral arancio di Oreste Ianiro dalla sciata velocissima; zio Vincenzino Di Nardo prese un paio di Formula 2 blu e fucsia e papà, accortosi delle mie tavole fradice, mi regalò un paio di Glass 3000 rossi a fregi neri. Nicola Ianiro portava un paio di Glass 300 rossi con fregi argento. Ciro Mendozzi, invece, quelli di un'altra celebre marca: i Salomon color verde scuro.

Sulla lunghezza degli sci esistevano numerose scuole di pensiero: fino alla punta del dito medio a braccio esteso, fino al palmo della mano, fino al polso poi fino all'altezza degli occhi... ma l'importante era sciare!

E quale sciolina? Eravamo la croce dei sacrestani: la cera andava a ruba... specie quando la neve caduta era "bagnata" e tendeva ad attaccarsi alle solette con effetto di un freno a mano inserito.

Gli attacchi erano un altro formidabile capitolo: da una prima necessità di alternare sci di fondo o discesa con la stessa attrezzatura si svilupparono attacchi che poi sfociarono nell'attuale Telemark.

L'attacco Kandahar a cinghie di cuoio trasversali e speroni laterali di metallo conviveva con il Thiering, che bloccava la punta dello scarpone con due lamine metalliche "a vomere" e cinghie in cuoio sempre trasversali. Il tallone veniva fermato da una molla trasversale ad asola con leva di serraggio laterale. La necessità di usare il tallone libero rendeva necessario una molla di acciaio con leva di serraggio anteriore. La molla a cordicella poteva essere fissata posteriormente a delle alette metalliche montate sulla talloniera bloccando completamente lo scarpone che portava sui lati del tacco delle apposite scanalature e una sporgenza per l'incastro della corda. L'adozione su questo attacco con il moderno puntale a sgancio di sicurezza laterale rendeva necessario una sporgenza anteriore sullo a mo' di "becco d'anatra" rinforzata da due viti sui lati.

L'attacco Rottefella era tipico dello sci di fondo: una Y di metallo bloccava il puntale a becco della scarpa incastrandola anche con l'ausilio di spuntoni sulla base della soletta. La parte anteriore dell'attacco si bloccava su una ghiera a scatti chiudendo il tutto. I ragazzi di Capracotta però usavano il Rottefella anche con le calosce nere Superga ed anche in discesa: in caso di caduta se non "partiva" la caviglia partivano gli sci con tutte le calosce attaccate sfilatesi dai piedi...

I moderni puntali e talloniere venivano installati sugli sci in fibra e se lo scarpone ciurlava, perché leggermente corto, si inseriva uno spessore di cartone tra attacco e scarpone: tecnica volante insegnatami dai fratelli Sebastiano e Pasquale Paglione...

Avanti con il caravanserraglio: gli scarponi! Da quelli neri di cuoio, con lacci interni ed esterni rossi e bordo giallo con il catarifrangente posteriore rosso fuoco, a quelli plastici a levette con spoiler basso a corpo unico passando per gli ibridi: cuoio rigido e levette con calzata posteriore (li aveva Vincenzino Di Nardo).

Negli scarponi i pantaloni elasticizzati neri con talloniera: ottimi per far entrare la neve nelle caviglie e la rigorosa calzamaglia di conforto termico (sóttecalzùne). Mitico il commento di un amico che guardandosi dopo una rovinosa caduta si accorse di aver stracciato calzùne, sóttecalzùne e mutandìne... Azz'!

Un mondo variopinto, un circo equestre le cui voci, le nostre voci, se vi fermate ad ascoltare mentre la neve cade sul Prato di Conti, ancora risuonano mentre il bianco del cielo abbraccia e si fonde con manto nevoso come in un grembo materno: «Ariòpp'... a tutta lìpp'!...».


Francesco Di Nardo



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