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Polvere di cantoria... in studio medico


Il medico Antonio Di Nardo.

Essendo la medicina un compendio degli errori successivi e contraddittori dei medici, appellandosi ai migliori di essi si hanno ottime probabilità d'implorare una verità che sarà riconosciuta falsa qualche anno dopo. Dimodoché credere alla medicina sarebbe la suprema follia, se non credervi non ne fosse una ancor più grande, giacché da questo accumulo di errori si sono sprigionate alla lunga alcune verità. [M. Proust, "Alla ricerca del tempo perduto", 1914]

La mano di Anna Bertha Röntgen.

Il 18 novembre 1895 il fisico Wilhelm Conrad Röntgen stava lavorando ad un esperimento in cui, all'interno di un'ampolla sottovuoto, un fascio di elettroni veniva sottoposto ad un forte campo elettrico. Il fisico lavorava al buio a causa del suo daltonismo. Casualmente, si avvide che una lastra imbevuta di platinocianuro di bario, posta a poca distanza, si illuminava di una debole luce e, quando pose la sua mano tra l'ampolla e la lastra, su quest'ultima ne comparve l'immagine. Ma non era la mano nella sua interezza: sulla lastra si poteva osservare solo lo scheletro, come se ne fosse l'ombra. Dall'ampolla stava uscendo qualcosa che attraversava la materia a seconda della densità. Gli elettroni, infatti, sottoposti al campo elettrico, si precipitavano verso il polo positivo e, urtandolo, subivano una violenta frenata: l'energia cinetica ad essi impressa dal campo elettrico si trasformava così in calore e radiazioni elettromagnetiche.

Poco più tardi, Röntgen sottopose al fascio di raggi la mano di sua moglie, Anne Bertha Ludwig ma stavolta, al posto della lastra, mise una pellicola fotografica. Allo sviluppo comparve lo scheletro della mano della consorte con tutta la fede nuziale e un leggero contorno dei tessuti molli. Erano stati scoperti i raggi X e iniziava la storia di una nuova branca della diagnostica medica: la radiologia. Nella foto le ossa della signora appaiono nere poiché è un'ombra, cioè una zona in cui le radiazioni sono state fermate dalla densità delle strutture calcificate, quindi un positivo fotografico. Oggi sulle lastre siamo abituati a vederle bianche perché osserviamo un negativo.

Non saprei dire quando papà decise di acquistare l'apparecchio radiologico per il suo studio medico. Mi sembra di averlo sempre visto lì, nell'ambulatorio accanto alla scrivania e di fronte al lettino medico che era posto al centro della stanza. Nonostente il ricordo di un bambino lo faccia apparire gigantesco, aveva comunque una mole decisa: la struttura in acciaio satinato con il pannello centrale verticale verde medico davanti al quale c'era la pedana per il paziente e lo schermo fluorescente, mentre dietro il guscio blindato che conteneva il tubo radiogeno dove due piccole saracinesche piombate si aprivano per far uscire e collimare le radiazioni insieme ad un fascio di luce che fungeva da puntatore. Al fianco un braccio metallico sosteneva il pannello di comando per l'accensione, la scelta della potenza di emissione e dei tempi di esposizione.

Lo schermo fluorescente, montato su un carrello a spostamento bidimensionale con frizioni e contrappesi, era stato ideato per la diagnosi rapida: il paziente era posto tra schermo e tubo radiogeno, mentre il medico, con opportune protezioni, poteva osservare in "presa diretta" le immagini come su un televisore. Questa tecnica, detta schermografia, veniva utilizzata principalmente per la diagnosi della tubercolosi e della silicosi e per indagini di massa. Sopra lo schermo era presente un pannello in plexiglass trasparente: protezione per il medico dagli eventuali colpi di tosse del paziente con TBC in caso di schermografia toracica. Al di sotto, invece, era stato progettato un telo di gomma piombata per limitare l'esposizione ai raggi dell'osservatore. In aggiunta, con lo stesso scopo, erano in dotazione un grembiule e guanti di gomma piombifera pari ad uno spessore di 0,5 mm di piombo. In alcuni casi la schermografia si utilizzava anche per la riduzione sotto controllo visivo di fratture degli arti ma esponeva l'ortopedico a grosse dosi di radiazioni: radiodermiti e tumori della pelle delle mani sono le patologie tipiche dei primi radiologi ortopedici senza contare le patologie leucemiche.

Tuttavia, il tubo si poteva ribaltare e utilizzare per l'esecuzione di esami su lastra: insieme ai meccanici di Capracotta, papà studiò la realizzazione di uno stativo in profilati di acciaio e pannelli di legno dove poter posizionare il paziente in tutte le posizioni necessarie e un cavalletto a saliscendi per alloggiare le cassette radiologiche contenenti le lastre da impressionare. Non era possibile, infatti, acquistare e utilizzare un tavolo diagnostico convenzionale per la mancanza di spazio. Accidenti però se funzionava!

In cantina, accanto alla caldaia a carbone, un piccolo sgabuzzino fungeva da camera oscura con la canonica lampada rossa, le vasche di sviluppo e lavaggio, i fili con le clips metalliche per far asciugare le lastre e l'inconfondibile odore dei liquidi di sviluppo e fissaggio: pungenti tra acido e dolciastro. Una buona immagine dipende dalla sensibilità della pellicola, dal tempo di esposizione e dalla potenza associata alle radiazioni: paradossalmente, ad un aumento della potenza dei raggi e della sensibilità della pellicola, corrisponde una diminuzione della dose assorbita e non solo per la riduzione del tempo di esposizione: le radiazioni vengono fermate dalla densità degli oggetti e quindi lasceranno in tali oggetti la loro energia. Una radiazione più potente attraverserà più facilmente l'oggetto in esame lasciando in esso meno energia e con meno rischi biologici se l'oggetto è un corpo vivente. Per questo motivo le potenze degli apparecchi sono via via aumentate con miglioramento anche della qualità delle immagini.

Così la diagnosi toracica ma anche delle fratture, che papà personalmente steccava e ingessava. Nei casi più gravi, bisognosi di chirurgia ortopedica, era necessario uno steccaggio temporaneo che consentisse il trasporto del malcapitato paziente verso le strutture idonee. Così provvedeva, aiutato dai falegnami di Capracotta, alla realizzazione di dispositivi di contenimento per evitare che lo spostamento automobilistico potesse aggravare la situazione. Tali dispositivi artigianali, realizzati secondo principi rigorosamente biomeccanici, facevano sorridere gli specialisti di riferimento i quali, però, ad una migliore osservazione ne riconoscevano la reale efficacia e, molto spesso, all'invio di un paziente corrispondeva l'arrivo di una telefonata di complimenti da parte dei colleghi.

A fianco all'apparecchio radiologico - per inciso - vi era anche un piccolo laboratorio di analisi estemporanee per la VES e l'emocromo, nonché per la compatibilità trasfusionale di emergenza. Poco discosto, il forno ad infrarossi da utilizzare per la riabilitazione dei pazienti con traumi e pregresse fratture: la preistoria della fisioterapia riabilitativa.

Gli esami strumentali erano, allora come oggi, di ausilio diagnostico ma anche i principi fondamentali della semeiotica medica vigevano, allora come oggi: ispezione, auscultazione, palpazione e percussione.

Il grande apparecchio venne con noi a Tivoli e troneggiò per molto tempo nello studio ma utilizzato sempre più di rado. Le norme sempre più innovative in tema di protezione dalle radiazioni ionizzanti, l'obsolescenza e la vicinanza di strutture diagnostiche più adatte ne imposero lo smantellamento.

Tuttavia, il ricordo di quell'avventura pionieristica sopravvive nell'ampolla radiologica, il cuore del silenzioso "gigante verde", col vetro opacato da anni di radiazioni che papà ed io volemmo conservare insieme alla prima testata ad alta energia del mio studio odontoiatrico, in quella eterna coesistenza di passato e presente che sembra aver contrassegnato tutta la mia vita.


Francesco Di Nardo

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