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Ricordi capracottesi


La comitiva di boy scout si appresta a salire su Monte Campo.

Capracotta 1961: avevo 18 anni, per la prima (e unica) volta interrompevo il mio lavoro estivo che facevo per mantenermi agli studi, e tra tutti i ragazzi presenti (tranne il capo responsabile) ero il più grande. Come sempre in tutta la mia vita, mi sentii subito responsabile di quei ragazzi, per cui mi caricai dei lavori più pesanti e feci anche il cuoco.

Con il piccone ho scavato la roccia per piantare l'albero dell'alzabandiera; le tende comuni; quelle per dormire; la guardia di notte. Le prime tre notti volli farle sempre io, per sembrare coraggioso e non caricare di responsabilità ragazzini di 15-16 anni. Ci avevano detto che potevano esserci i lupi, e una accetta era la mia impropabile arma, e forse c'erano davvero, perché la notte molti rumori e richiami provenivano dal bosco che ci circondava. Quando arrivava qualche nuvola, tutto l'accampamento ne veniva avvolto, e poi restavo solo io, fuori dalla tenda, grondante d'acqua e tremante per il freddo: in fondo anch'io ero solo un ragazzo.

Uno di quei ragazzi che a me sembrava che proteggessi con coraggio, è venuto qualche tempo fa, da un altro continente, dopo moltissimi anni, e mi ha detto (più che a me, a un mio figlio presente):

– Non ho mai dimenticato che tu ci hai sempre difeso; adesso ho saputo che hai bisogno di aiuto, dimmi cosa posso fare per te.

Io vi parlo qui del tempo in cui, ragazzi, andavamo a scuola; del tempo che vorremmo tornasse, ma è impossibile. Dei sogni, delle speranze che avevamo nel cuore...

I ricordi ormai sono in po' labili, ma i sogni di allora, quelli no, sono incancellabili. Come un viandante di una volta che si rialzava dal suo momentaneo riposo e riprendeva la via, così mi si ripresenta il giorno dell'escursione in uno dei boschi vicino a Capracotta.

La zona era a noi sconosciuta, ma la baldanza giovanile ci prospettava tutto facile da affrontare. Questa foto rende l'idea del nostro marciare, con il vento in faccia, verso una meta sconosciuta, verso mete ancora nebulose ma affascinanti e ricche di promesse. Non mi chiedete i nomi dei posti, ricordo solo che, scesi dal Monte Campo aggrappandoci timorosi alle falesie, questi grandi massi che sembravano incombere su di noi, entrammo in un bosco che percorremmo un po' avventurosamente, smarrendo spesso il sentiero.

Con me e il capo, c'erano ragazzini di 14-15-16 anni che ad un ennesimo smarrimento di sentiero, incominciarono a fare domande preoccupate, alle quali io non sapevo assolutamente rispondere, come spesso il nostro capo. Ma la fortuna audaces iuvat e il primo sospiro di sollievo lo provammo quando trovammo un pozzo, mezzo diroccato, al quale attingemmo con le nostre borracce.

Ripreso il cammino, difficoltoso nei punti di risalita per le foglie bagnate sul terreno che ci facevano sdrucciolare, pian piano riprendemmo coraggio fino ad uscire a «riveder le stelle», come dice il sommo poeta: in questo caso era il sole caldo che ci accolse luminoso dopo tanta penombra. Non chiedetemi l'itinerario, ricordo solo che ci ritrovammo a Prato Gentile, dove, stesi al limitare del bosco, godemmo del riposo e della vista di quel vasto prato appunto "gentile".

Eravamo stanchi, ovviamente, soprattutto i ragazzini, ma qualcuno del posto ci lanciò l'idea di proseguire verso un versante di un monte là vicino, per andare a visitare/esplorare una angusta grotta che si apriva su quel lato del monte. Un po' meno baldanzosi, ma spronati dalla curiosità e dall'amore per l'avventura, seguimmo più o meno le indicazioni ricevute e ci ritrovammo sulla cima di un costone, che dovevamo scendere per raggiungere, a metà percorso, questa famosa grotta. La discesa non era agevole per via dello strato di pietre lisce sovrapposte le une sulle altre, per cui il piede non poggiava su un terreno fermo. Comunque ce la facemmo, pian piano, ad arrivare a questa grotta: una stretta fessura che si incuneava profondamente nel monte.

L'aspetto non si presentava rassicurante, con una entrata stretta sormontata da pietre visivamente instabili. La paura fece novanta, come suol dirsi, e così si decise di non entrare e tornare indietro. Ma indietro, dove? E come? La risalita scoprimmo subito che era impossibile, con quelle pietre che scivolavano da sotto i piedi, per cui non ci restava che continuare a scendere il pendio fino alla sua base e alla strada che correva sotto, lì vicino.

Incominciammo a scendere con molta circospezione e paura, ma ad ogni passo qualcuno prese a scivolare e si fermava a stento, qualcuno si sedeva e si rifiutava di continuare, e qualcun'altro incominciava a piangere. Uno in particolare, un bravissimo ma fragile ragazzo, non aduso a sforzi fisici e molto timoroso. Mi chiamò in soccorso e si aggrappò al mio braccio tanto da farmi male, e benché tentassi di calmarlo, non riuscii a fargli lasciare la presa: la sua mano era diventata un forte artiglio e la sua paura incontrollabile. Non ci restò che pregare e riprendere con infinita cautela, la discesa. Ci volle tempo, ma un poco alla volta, con il sedere per terra, scivolando, riuscimmo a raggiungere la base della parete. Eravamo stremati, ma felici di essere riusciti a superare una prova così difficile.

Vi parlo delle stesse cose che voi ricordate, e se ve le siete scordate v'aiuto a ricordarle...

Flash di ricordi, di nomi, di visi e il pensiero che corre a quei ragazzini oggi anziani, e che nella vita hanno raggiunto mete importanti, li conosco e li ricordo uno per uno, e li ho tutti davanti agli occhi e affollano la mia mente e il mio cuore. Ragazzi, se il caso vi porta a leggere queste poche righe, vorrei che pensaste a quell'escursione come ad un primo gradino verso il raggiungimento dei vostri sogni, e a ricordare chi vi ha dato una mano a scendere quella china, che talvolta lui non ha saputo affrontare con la stessa vostra determinazione nei confronti della vita.


La comitiva di boy scout raggiunge la vetta del Campo a 1.746 m.

Afono. Completamente afono al ritorno dell'escursione. Il vento che ci soffiava contro mentre marciavamo fieri verso la montagna; il vento che ci aveva dato baldanza e sussurrato "andate, il mondo è vostro"; il vento che spazzava la cima di Monte Campo, mentre aggrappati alla croce immortalavamo la nostra gioventù; il vento, lì sopra, spazzò via il mio sudore e la mia voce.

Afono, non ruiscivo a pronunciare nemmeno una parola, mentre c'era tanto da fare, a incominciare a pensare cosa e come cucinare il mezzogiorno. Non è che sapessi cucinare, in quanto il mio rapporto con il cibo è stato sempre all'insegna dell'essenziale: detto brutalmente, riempire lo stomaco, voracemente e quantitativamente. Alla partenza per Capracotta, ovviamente portammo con noi parecchi viveri, costituiti soprattutto da scatolame proveniente dal Vaticano, che a sua volta l'aveva ricevuto dagli USA, perché allora era ancora il tempo dell'aiuto economico e alimentare dell'America per un'Italia uscita devastata dalla guerra.

A me è sempre piaciuta molto la pasta con il ragù, che imparai, anche sulla pelle dei miei ragazzi del campeggio, a condire con molti pezzi di mortadella che ci era stata fornita in grosse lattine: tagliavo e buttavo nella pentola, e mi sembrava sempre poco, così pure per la pasta. Ovviamente partivo dal presupposto che anche gli altri avessero il mio stesso appetito, o meglio fame; con la conseguenza che la metà di quello che cucinavo avanzava. Gli altri erano tutti ragazzi provenienti da famiglie, come dire, benestanti, e a casa loro certamente non mangiavano solo pasta, avendo a disposizione diverse tipologie di cibo.

Faccio una disgressione, per far capire e per sorridere: uno di quei ragazzi era figlio di un medico, amico di scuola e un bravo studente. Io non studiavo molto, mi piaceva giocare a pallone e quando c'erano da portare le versioni di latino e di greco, spesso andavo a casa sua, e mentre lui si affannava a tradurre il brano, nell'attesa io venivo portato dalla sua magnifica madre, gentilezza e umanità fatte persona, in cucina, dove, aperto il frigorifero (e cos'era il frigorifero? io non lo avevo mai visto?) mi diceva:

– Vuoi qualcosa? Un panino?

E c'era il caciocavallo, e c'era la mozzarella, e c'era, e c'era, e c'era... Perciò avanzava mezzo pentolone di pasta: cosa farne? Qualche volta, dalle parti del campo, erano passati dei pastori con le greggi, protette da grossi cani da guardia, che portavano collari di ferro con delle punte lunghe, per proteggersi da un eventuale attacco di qualche lupo, quei lupi che io sentivo, o immaginavo di sentire la notte, quando facevo la guardia. Allora svuotavo il mezzo calderone un po' lontano dal campo, e potete credermi, dopo poco tempo tutti gli avanzi erano spariti!

Vicino al campo c'era una sorgente limpidissima di acqua super fredda, tanto che la mattina riempivo la borraccia, l'appendevo alla tenda refettorio, e a mezzogiorno, pur esposta al sole, era ancora freschissima. I giorni passavano velocemente, il tempo lo trascorrerevamo tra giochi, canti, scherzi, preghiere e lavoro. La sera, i nostri canti, stonati, si alzavano alle stelle, mentre di fronte a noi si ergeva il Monte Capraro al quale avevo dedicato una poesia che non ho più trovato. «Quando sul campo discende la sera e l'ombra si fa più nera, una rondinella va a riposar e noi tutti cantiamo» o «Bianco Padre che da Roma, ci sei meta, luce e guida, in ciascun di noi confida, un esercito all'altar. Siamo arditi della Fede, siamo araldi della Croce, a un cenno e alla tua voce, un esercito all'altar».

Canti innocenti, canti di Fede, canti ignari della vita reale, canti di ragazzi allevati con amore da insegnanti, educatori, religiosi, che hanno saputo instillare in loro le regole dell'onestà e del bene, e non uno, per quanti mi risulta, non uno, dico, ha preso vie traverse nella vita: si era poveri, ma bastava un canto, una partita a pallone, una serata nella nostra Associazione, una lezione su Dante, un panino, e il mondo era nostro! «Vi ho parlato di un tempo, che vorrei tornasse, ma è impossibile», come diceva lo scrittore Giovanni Mosca.


Il momento del pranzo dei boy scout.

Ogni giorno si scendeva a Capracotta dal nostro campo per comprare pane e frutta e, per effettuare il tragitto, occorreva, mi sembra, circa un'ora. Avevo sempre paura di smarrirmi, delle serpi e di essere spesso solo.

Un giorno, arrivato in paese, mi ricordai di andare a salutare, come desiderio e raccomandazione di mio padre, un vecchio massaro che aveva lavorato anni prima nella masseria di Torre dei Giunchi a San Severo e a cui lui era molto affezionato. Ma probabilmente era già morto, pensavo, in quanto doveva essere molto anziano, vicino ai cent'anni. Per le strade spesso mi fermavo a chiedere notizie e così, poco per volta, riuscii a farmi ben indirizzare. Mi sembra di ricordare che vicino casa sua ci fosse una specie di torrione dove era segnato sul muro l'altezza della neve di qualche inverno passato.

Trovata la casa, bussai timidamente e chiesi del signor Luigi, e con mia grande sorpresa mi dissero che era vivo ma che, però, era allettato. Mi avvicinai al suo letto, feci il nome di mio padre, e quella bocca con pochi denti si aprì in un sorriso: ricordava ed era contento di essere stato ricordato! Ah, l'amicizia di una volta, fatta di cose semplici e vere: qualche volta il fondo di una ricotta, un po' di latte, qualche pezzo di formaggio fresco (che spettava a noi, poi, salarlo) quattro chiacchiere tra due uomini semplici, ambedue provenienti da una cultura e una vita umile e montanara (mio padre era originario di San Marco in Lamis, sul Gargano) e un pancotto fatto con pane duro ed erbe trovate nel pascolare le pecore, legavano cuori semplici, uniti dalla povertà e dal duro lavoro.

Il signor Carnevale mi raccontò alcuni suoi ricordi di quella vita e mi raccomandò di salutare il suo antico amico. Mi sorrise e andai via. Risalii la montagna e, nell'avvicinarmi al campo, ebbi modo di farmi una bella risata, assieme ai ragazzi che mi avevano raggiunto, quando spuntò dal bosco il nostro assistente spirituale, con i pantaloni mezzo abbassati, che correva gridando:

– La vipera! La vipera!!!

Cos'altro dire o scrivere? Solo un'immensa malinconia e nostalgia, per un tempo dove tutto era semplice e a dimensione d'uomo. Non c'erano gli eroi, i divi, la politica gridata, l'indifferenza verso il prossimo o il diverso: tutti appartenevamo ad uno stesso continente che aveva nome Umanità.


Luigi Sales

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