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Ru campanar'


Roccacinquemiglia
Roccacinquemiglia (AQ), dov'è ambientato il racconto.

Ricordate quando il Campanile era intero con attaccato l'orologio? Era bellissimo! Aveva un fascino particolare. Allora ricorderete che per salire fin sopra le campane c'era la scala interna fatta in pietra, buia. Si vedeva la luce solo alla fine, quando si era arrivati in cima.

Noi ci andavamo sempre, anche se ci dicevano che non si poteva perché qualcuno aveva chiuso la porta d'accesso. Sì, vero, ma una fune che serrava l'entrata per noi era un gioco da ragazzi toglierla. Giusto, proprio ragazzi, perché allora quello eravamo.​

Era un pomeriggio d'estate di tanti anni fa. Si cazzeggiava per la piazza con un pallone cercando di giocare, segnando alla porta avversaria costituita da due selci. Verso la fine del primo tempo, durato circa due ore, arrivarono due autovetture che, incuranti del nostro fare, parcheggiarono proprio nell'area del nostro campo di gioco. Gli occupanti, circa otto o nove persone, scesero e, dopo aver dato un'occhiata in giro, decisero di avviarsi verso il campanile. A quei tempi per noi non poteva esserci offesa più grave: la partita di pallone era un appuntamento indiscutibile e tutti i "soliti" non potevano mancare.​

Uagliù – disse uno – séte vìste chìsse? Sò arriviàte ècch'e sò lassàte le màchene miézz'alla via! Vedéme nu pòche che cazz'éma fà! Vabbuó – rispose un altro – I già sàcce com'éma fà!

La verità era che già tutti noi sapevamo cosa fare, era solo che c'era il capo branco, al quale, come un ordine gerarchico, bisognava rendere conto.

Ad uno ad uno ci avviammo verso il campanile. Giunti alla base di esso udivamo le risate dei "turisti" che in fila per uno salivano le scale a chiocciola per arrivare in cima. Quando fummo sicuri che tutti fossero saliti, chiudemmo la porta d'ingresso giù e ci sedemmo in un punto dove loro, dall'alto, avrebbero potuto vederci. Formammo una fila, tutti seduti, guardando quel gruppo sopra il campanile, senza battere ciglio, senza parlare.​

Dopo poco la trappola del silenzio e dell'indifferenza funzionò! Quel nostro atteggiamento infastidì tutti, tant'è che uno di loro, con accento napoletano disse: Nè, ch'avìte fatte? Siete muórte o siete vivi? Rispunnìte! Ué, uardàte, chille sò finti! E scoppiarono a ridere. I 'l sapeva! – disse il capo branco. 'Mbè mó ch'éma fà? Iat'a levà le màchene da èlle o v'éma lassà èsse sopra?

Avendo capito che li avevamo chiusi dentro, i turisti scesero tutti, ma, arrivati alla porta, la trovarono sbarrata. La fune, benché vecchia, manteneva benissimo colpi e contraccolpi e non cedette nemmeno un po'. Vistisi persi, i malcapitati tornarono sopra e uno di loro disse: Se cale abbàsce ve facce nu cule tante! Noi ci guardammo e tutti insieme rispondemmo: A chi? A nù? Ma vaffangùle camì! Detto questo ci avviammo verso la piazza incuranti delle grida e delle minacce che ci venivano rivolte.​

Giunti a destinazione decidemmo di sospendere l'incontro di calcio, anche perché si era fatto tardi. Così ognuno tornò a casa. Io abitavo alla via dell'Unra. Giunto all'altezza del bar di Peppe (alias Pepbar), incontrai mio padre che andava alla cantina di Filippuccio per comprare le sigarette e mi disse:

Cumènza a i alla casa ca mó viénghe pur'i! Ma chi è ch'allùcca accuscì? Erano quelli che avevamo chiuso nel campanile. Le loro urla si sentivano fino a Capracotta! Per tutta risposta dissi: Booo, n'l sacce, i nen sènte niénte! Vabbuó, allora se vedéme alla casa.

E così finì l'ennesima avventura dei Soliti Ignoti, della Banda dei i n'sacc nient, o chiamatela come volete.

Sinceramente non so che fine abbiano poi fatto quei poveracci chiusi sulla torre, so solo che se ne parlò per molto tempo e nessuno seppe mai cosa realmente fosse successo. Forse furono liberati dai Carabinieri, dai Vigili del Fuoco o da qualche paesano. Noi, per due giorni, non ci vedemmo né sentimmo, onde evitare sospetti!


Giovanni Ricci

 
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