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Nel Sannio mistico (II)



La festa dei muli e del legno

Capracotta, gennaio.

Ora io vi racconterò la festa dei muli e del legno a Capracotta Sannitica, perché possiate raccogliere il soffio di poesia italiota che ancora vive in alcune sue terre ed in alcune sue allegorie mistiche, necessarie ad impersonare ed a concretare le astrazioni della fede e le tendenze dei popoli. A Capracotta, si sa, vi è una Chiesa Madre. Io non posso dire che sia un monumento nazionale. Troppe cose elette dicono gli orizzonti e l'altitudine del paese montano più eccelso dell'Appennino e del Sannio e perciò sfuggono le piccole vanità del mondo in pietra, in metallo o in istoffa che affaticano dei loro tormenti i sogni ed i decaloghi della bellezza.

Dirò che la Chiesa Madre è bella per ciò che non pensano quei di Capracotta che elogiano un battistero barocco del Seicento pregevole ed una S. Elisabetta del Colombo, che li onora della sua visitazione viva ed umana come la parola non detta che ha da un secolo sulle labbra. Bella, perché ha una triste aria sopravvissuta e posa su un bastione del Medioevo a sghembo che pare la radice d'un castello abbattuto ed è chiusa da un portale nudo ed austero tutto coperto di piccole croci di legno.

E che cosa sono? Il segno di ogni Giovedì Santo da quando fu costruita. Ora l'uso è cessato perché pareva vecchio o pareva troppo invecchiare.

Ma la predilezione dei Capracottesi non è la Chiesa Madre. Vi è sempre il fanatismo leggendario delle divote leggende campestri. In solitudine, fuor d'ogni rango umano, che attrae nei paesi nostri la semplicità e l'ardore delle genti. A Capracotta è la cappella della Madonna di Loreto. Piccola cappella a un miglio dal paese, ricca d'antichi censi armantizii. Dietro l'altare, al tirar d'una cortina che la cela alla curiosità quotidiana degli sguardi, una Madonna con la sua aria di idolo immobile, senz'altra espressione che la vanità dei suoi colori e dei suoi voti d'oro e d'argento, metallica nello sguardo, nel diadema, nelle collane innumerevoli... Eppure essa appare difforme tozza e disanimata perché custodisce e cela un simbolo. Il suo corpo è un tronco d'albero. Essa apparve ai mistici delle leggende col volto divino che raggiava su un legno abbattuto della foresta umiliata e confusa col fossile vegetale che è il pane di tutti i focolari montanini.

Trasportata alla Chiesa Madre la pia immagine ritornò alla boscaglia eletta, in essa consustanziata, perché nelle sue membra arboree i montanari venerassero la prima preclara sorgente dei loro beni, "il legno della foresta". Sul tronco leggendario, quindi, la Vergine fu costrutta dalla vita in su e la sua ricca veste, d'azzurro ingioiellata dalle stelle dei voti mistici, ancora cela il vecchio legno benedetto.

 

Laudato sia frate legno

Veramente umile prezioso e casto, come l'acqua. L'8 settembre con la Madonna è consacrata la sua festa. Ogni tre anni a sera la vergine arborea viene presa e portata come nel dì lontano della leggenda alla Chiesa Madre. Lì i Re Magi del tempio le donano la nuvola d'incenso e preci clamanti, e trombe argentee d'organo, e miti, accorate elegie religiose che la fanno vivere per tre giorni in un tremito di luci e di commozioni. Pare allora un poco impallidita, la buona e prosperosa Madonna di Loreto, e ricorda le sue origini trascendentali col turbamento che deve fare vergini e portentose tutte le linfe della sua consacrata carne vegetale. Ma desidera, ed è palese, di ritornare laggiù al suo angolo diletto, vicino al respiro remoto della selva, vigilata solo dall'eremita che è il suo sagrestano. D'inverno i boschi olimpici intorno a lei s'inghirlandano di neve e le raffiche dei venti disfanno le ghirlande e le portano trasvolando intorno al suo trono. La prece più penetrante al suo cuore di fibra arborea è certo quell'ululo smisurato che fa la tramontana passando sul suo altare. Grida la sua virtù e plora per il suo sacrificio d'umiltà che fa moltiplicare le radici, i rami e le foglie e rende le linfe generose come vini fermentati e gommose e possenti le resine rigeneratrici dell'aria. È quella la sua vera festa ed il suo regno glorioso. L'inverno. Essa brilla allora, col suo corpo transustanziato nella specie del legno sacro, ardendo in ogni focolare, suddivisa in tante lingue di calore benefico, commista nella ricca porpora della brace, volatizzata nei vapori umidi e caldi delle brode piccanti e delle farine intrise per il nutrimento, l'inabolibile pena della carne... Brilla e consola, fertile e gaudiosa come il pane delle foreste, frate legno veramente umile, prezioso e casto. Laudato sia...

 

La grande orazione animale

Dicevo che la Madonnina desidera ritornare alla sua funzione. Bisogna, dopo la visita trionfale al paese, bisogna che torni alla sua pace di buona massaia boschereccia a raccogliere il saluto delle mandre che partiranno fra breve. E poiché ha benedetto in sé stessa frate legno bisogna che benedica ancora i buoni muli, domestici della montagna, i fedeli e caparbii amici dell'uomo che trasportano sui bei carri di Capracotta, tatuati d'ocra e di nero, le foreste recise. Nessuno più di essi potrebbe intendere la vita come un peso, poiché non vi è un sol braccio di legno della montagna che non sentano premere sui loro destini e sulle loro maglie vibranti dei muscoli generosi. E perciò bisogna che la Madonna li contempli, li compatisca e faccia fertile e saggia la loro opera e la loro genitura. Si spiega così, nella teoria dei muli bardati di glorie festive che la scortano nel ritorno alla Cappella, la grande orazione animale. È d'una portentosa bellezza. Alla sera del terzo giorno della festa la Madonna viene ripresa ed esce dalla Chiesa Madre claudicante nell'ondeggiare della folla ammantellata di brune bende monastiche. Fa già freddo... E il vespero è asciutto ma cortese ed il bel cielo d'opale insanguinato di violenza dal tramonto è già quasi svanito su Capracotta. Le prime stelle spuntano dietro la Maiella, piccoline e modeste, perché i lumi della terra ardano in gloria. La moltitudine occhiuta ed angosciosa dei muli disposta in fitto semicerchio intorno la Chiesa attende la Madonna. Cavalcati dai loro padrosi, vellosi come fauni antichi, i belli animali cocciuti e gagliardi scalpitano insofferenti.

I suoni ed i canti li eccitano, la luce delle fiaccole rompe il cerchio assiduo della loro ombrosità taciturna. Ma nessuno perde il suo ordine nella processione, nessuno interrompe con la brutalità del suo diniego, la dignità rappresentativa della devota coorte alla Gloriosa, che ritorna al suo asilo boschereccio. Ed ora essa va innanzi e si ferma dinanzi a tutte le case che espongono un piccolo tavolo decorato ed illuminato dov'è pronto l'obolo, il voto, il segno della grazia ricevuta.

La sua tunica azzurra diventa un umile ed espressivo bazar di orecchini, collane e pendagli d'oro, delle pie femminelle. In ognuno di essi non brilla che la gemma della lagrima mansueta con la quale è offerto il dono. E dietro, dopo il clero e le cantatrici, si svolge la processione dei muli. Ognuno rappresenta una casa, una stirpe ed ha la sua veste parata.

 

Un paradosso del grottesco

Il paradosso del grottesco li fa quasi elementi attoniti di uno degli antichi misteri delle spente religioni druidiche. Poiché hanno per basto le coperte di seta preziose delle vecchie arche cospicue del paese o i folti panni tessuti dalle donne di Capracotta, tinti di vivaci fuochi erborei, ed alle orecchie che squassano indomiti per il fastidio, pendono fiori di carta e i brelocchi d'oro delle più fauste goliere nuziali, la coda spiovente è stretta da fazzoletti smaglianti di seta e bende di lino. Le spose mettono ad alcuni le mantiglie candide dei loro epitalami rustici, polpute di cifre e ghirigori ricamati, ed essi acquistano allora un'aria speciosa di bonzi orientali.

La sera dà il senso già sacro delle sue ombre fluttuanti. E le fiaccole accese da ogni cavaliere brillano l'intatto fuoco odoroso della resina, ed ogni fiamma si piega ansiosa e fumosa nel corso del vento. Nelle luci i volti s'impietriscono e si impiccioliscono e nell'ardore fanatico che cresce i canti diventano acuti e tristi come gridi. I muli passano, ritmando il passo, colla lentezza cadenzata dei cammini mistici e così falsati di vanità, eroi comici della commedia umana, portano dietro la Vergine la dignità del loro sforzo quotidiano contenuto in aspri nitriti, la nobiltà del loro spirito imperfetto, consustanziato e fedele alla vita ed all'opera dell'uomo, come l'elemento primo del grande segreto che li lega, forse nella medesima origine e nella medesima tristezza animale...

Forse, chi sa! Io non lo so, certo. Bisognerebbe domandarlo alla buona Madonna arborea di Loreto capracottese che sa così bene il valore delle umili cose primordiali.


Lina Pietravalle


 

Fonte: L. Pietravalle, Nel Sannio mistico, in «La Lettura», XXIV:1, Corriere della Sera, Milano, 1 gennaio 1924.

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