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Signorina Allergia


Chiara Gamberale
La scrittrice Chiara Gamberale posa per "Elle".

Che cosa vi devo dire che non vi abbia già detto. La verità? Ah, certo, la verità. Finalmente la verità. È che bisognerebbe intenderci sul significato che diamo alla parola: Edoardo, se fosse al mio posto, pretenderebbe senz'altro di discuterne, perché ha studiato filosofia, lui. Personalmente, credo che la verità sia una cosa che comincia quando siamo piccoli, giusto? Almeno su questo possiamo essere tutti d'accordo, perfino Edoardo (anche se lì per lì si ostinerebbe a sostenere di no, ma solo per partito preso, lui è fatto così, è contro a prescindere). Allora: quand'ero piccola. Quand'ero piccola a casa mia eravamo in tantissimi. Almeno otto, eravamo. Spesso nove, quando la tabaccaia bionda ossigenata trovava uno spazio fra un fidanzato nuovo e l'altro. Mio fratello e io dormivamo in una stanza. Nell'altra c'erano mio padre, la Lella, Giuditta, la tabaccaia bionda ossigenata se le girava, mia madre e nonno Marcello. E poi c'era Polly. Io davo moltissimi problemi ai miei genitori. Se ridevo troppo mi prendeva un attacco d'asma, se piangevo mi prendevano i crampi allo stomaco, se a scuola giravano i pidocchi o il morbillo, per la mia testa correvano inevitabilmente più pidocchi rispetto a quella degli altri bambini, sulla mia pelle più bollicine. Se faceva troppo caldo mi riempivo di chiazze fucsia, se faceva troppo freddo una stretta mi afferrava subito i bronchi. Ma, soprattutto, ero allergica a tutto: alla polvere, al latte, al polline, alle graminacee, al pelo dei cani, al fumo delle sigarette, al pomodoro. – Ma questa non è una bambina, è un'epidemia! – Diceva senza dire niente mio padre a mia madre. – Ci credo, è figlia tua. – Ribatteva senza ribattere niente mia madre a mio padre. Mio fratello, al contrario, non dava problemi a nessuno. Si chiama Teodoro, è morto che aveva due anni. Dopo dieci mesi sono nata io, inutilmente: nel senso che mia mamma avrebbe continuato a comportarsi come se avesse solo un figlio di cui andare orgogliosa e per cui avesse davvero senso preoccuparsi. Lo dico senza astio, credetemi: io per prima ho sempre avuto un debole per lui, rispetto a me. Mi faceva innervosire a volte, lo ammetto. Ma tra fratelli capita, no? Dormivamo insieme, ve l'ho detto. Quando la mamma veniva a svegliarci per andare a scuola, era per lui, io lo sapevo benissimo, che bussava prima piano e poi forte alla porta della nostra camera, per lui che spremeva le arance, tostava il pane e si sforzava di sorridere, prima che uscissimo di casa. Avete presente un gatto, se sapesse lamentarsi? Così era mia mamma. Con gli occhi lunghi, color birra, i movimenti veloci, felpati. Da gatto, appunto, come se quella in cui si muoveva, da cui usciva solo per fare la spesa, fosse casualmente casa sua. E aveva questo impellente bisogno di comunicare agli altri quello che le mancava. Cioè tutto. Capracotta, il paese vicino a Isernia dove lei e mio padre erano nati, cresciuti e vissuti, prima che mio padre fosse trasferito a Roma dalla ditta di confetti per cui lavorava. – Bastava aprire la finestre, guardare le montagne e il mondo pareva bello! Il mare, anche se non l’aveva mai visto. – Ci fosse almeno una spiaggia in questo schifo di città, dove potersi ogni tanto distendere e poi fare un tuffo.

I soldi. – Per che cosa ci siamo dovuti trasferire? Per settantamila lire in più al mese. Che tanto tuo padre usa tutti per le sue puttane. Un lavoro. – Mica ero scema io, da ragazza. In matematica ero davvero brava, sai. Ma all'ultimo anno di superiori ho conosciuto tuo padre e sono finiti i sogni. È cominciata la vita, se si può chiamare così questa che m'è toccata. Un uomo. Che però non fosse mio padre. – Basta, basta! Basta! – Soffiava, quando perfino di lamentarsi non ne poteva più. E si chiudeva in camera sua. Cioè loro. Ma non ci si chiudeva con mio padre, ci si chiudeva con il suo, di padre. Nonno Marcello, insomma. Io non l'ho mai conosciuto, perché aveva abbandonato mia nonna quando mia madre aveva quindici anni. Un bel giorno era partito per Pescara, per una fiera di artigianato, e semplicemente non era tornato più. Qualche mese dopo avrebbe spedito una lettera con diecimila lire, avrebbe lasciato la falegnameria a mia madre e ai suoi fratelli, avrebbe scritto che gli dispiaceva tanto, ma una certa Hilda a Berlino aspettava il terzo figlio da lui: gli sembrava arrivato il momento di prendersi le sue responsabilità, e sarebbe sparito per sempre. Ma la colpa, a sentire la mamma, era stata tutta della nonna. – Gli rovinava l'esistenza, poveraccio. Lui era un'anima bella. Un uomo sensibile. Mica come quel puttaniere di tuo padre… Ti ho mai raccontato di quando ci ha portato tutti a fare un pic-nic ad Agnone, il paese delle campane? Una domenica ha caricato sul furgoncino me, mia madre, i miei fratelli e… Me l'aveva raccontato mille e mille volte: ma la lasciavo sempre fare, perché erano gli unici momenti in cui gli occhi da gatto le scintillavano, anziché allagarsi di rimpianto o di nostalgia. Finché a una certa ora della sera tornava a casa papà, grandioso di cattivo umore e stanco. E ci sedevamo a tavola. Noi tre e tutte le altre presenze. – Se tu non fossi la bestia traditrice che sei. – Gli diceva senza dire niente mia madre, mentre gli riempiva il piatto. – Se tu fossi l'uomo che non sei… – Se tu ridessi come ride la Lella, quella donna giovane e strana che viene da Milano, dipinge tramonti e abita al terzo piano. – La interrompeva e le rispondeva senza risponderle niente mio padre, mentre masticava. – Se tu avessi un grammo della mitezza di Giuditta, la mia vicina di scrivania. Se avessi almeno i capelli biondi e la smania di essere bella della tabaccaia qui sotto. – ...forse Teodoro non sarebbe morto. Perché se tu fossi l'uomo che non sei, quella notte in macchina avresti corso di più e saremmo arrivati in tempo all'ospedale. – Aggiungeva lei, senza aggiungere niente. – Non sarebbe morto perché avrebbe ereditato un po' di attaccamento alla vita, se tu fossi la Lella o Giuditta o la tabaccaia qui sotto. – Aggiungeva lui, senza aggiungere niente. Tantissimi, ve lo ripeto: eravamo in tantissimi. Finito di cenare ci sistemavamo tutti sul divano, a guardare la televisione. La Lella si appollaiava su un ginocchio di papà, Giuditta sull'altro e ogni tanto si giravano e lo accarezzavano con lo stesso sguardo che gli lanciavano quando lo incontravano ma lui era con me, ed erano costrette a dirgli tutto solamente con gli occhi. Io mi accomodavo in mezzo, fra mio padre e nonno Marcello: mia madre in braccio a lui e in braccio a lei mio fratello Teodoro. La tabaccaia si aggrappava al lampadario e si lasciava dondolare, svogliata e civetta come quando allungava le sigarette a mio padre. Polly preferiva aspettarmi in camera e studiare i suoi spartiti. Oltre alla musica, e oltre a Tom naturalmente, voleva bene solo a me: era la mia amica più cara, a dirla tutta l'unica. Con le mie compagne di classe non mi trovavo proprio, sapete, non mi veniva da ascoltare quando parlavano, non mi veniva da parlare quando avrebbero potuto ascoltarmi. Polly era esattamente come me: Una ragazza fuori moda. Quel libro me l'aveva regalato proprio Giuditta, la collega di papà, per il mio ottavo compleanno. Fino a quel momento non mi era mai piaciuto leggere, lo facevo come facevo il resto delle cose, più che altro per non creare ulteriori problemi rispetto a quelli che già creavano le mie allergie e per non sfigurare ancora di più rispetto a mio fratello. Ma fin dalle prime due pagine di "Una ragazza fuori moda" Polly con i suoi vestiti sempre sbagliati, con le sue parole inopportune, con quel vizio di sentire con il suo cuore e pensare con la sua testa, mi aveva conquistata.

Così era con lei che, prima di addormentarmi, mi confidavo. Solo a lei avevo raccontato di avere visto una mattina, in garage, la Lella e mio padre fare quelle cose. Solo con lei avevo il coraggio di sfogarmi, di dire chiaro e tondo che secondo me a volte Teodoro esagerava e si approfittava di essere morto o che almeno Giuditta era simpatica, Lella era giovane, ma la tabaccaia puzzava di grappa anche alle otto di mattina e insomma, che cosa ci trovasse mio padre era davvero un rebus impossibile. Solo a lei potevo rivelare che quando un batuffolo di polline mi danzava attorno o, al refettorio della scuola, la cuoca si distraeva e non mi preparava a parte un piatto di pasta senza parmigiano, o quando, all'improvviso, qualcosa di inaspettato, rosso morbido duro giallo o cremoso che fosse, arrivava all'improvviso da fuori e crash, impattava dentro di me e io cominciavo a tossire e a riempirmi di macchie: beh. Tutti ormai erano sereni, tutt'al più scocciati ma comunque certi che l'attacco sarebbe passato, che sarebbe bastata una pillola delle mie o magari un'iniezione e in poche ore la tosse si sarebbe sciolta, le macchie si sarebbero scolorite. Ma a me ogni volta pareva di morire. Proprio di morire, mi pareva: e questo solo a Polly riuscivo a dirlo. Nemmeno a me, solo a lei. È stata per me più importante di una coscienza, più cara di una sorella e non smetterò mai di esserle grata.

Poi, è arrivato Edoardo. Dal giorno in cui l'ho conosciuto ho smesso di trascorrere tutto quel tempo con Polly, ma lei ha senza dubbio capito. Lei lo sa, che cosa significa innamorarsi. Le è bastato incontrare Tom quel giorno, in stazione, per non cavarselo mai più dal cuore: e anche se lui ci ha impiegato davvero tanto per trovare il coraggio di dichiararsi, i fatti alla fine hanno dato ragione a lei. A tutto quello che subito ha sentito. Anche con Edoardo è successo così: subito e tutto e in una stazione. In me sto bene / come il mare in un bicchiere / ma se sono confinata in questo calice / qualcuno mi può bere: li ha scritti lui questi versi. Li ha scritti per me, o almeno così mi ha detto. Perché era un bugiardo per sua stessa ammissione - un bugiardo buono, però, ne sono convinta, e se l'aveste guardato negli occhi ne sareste convinti anche voi. Erano verde triste, i suoi occhi, con un segreto dentro. L'ho conosciuto d'estate, subito dopo la maturità. Finiti gli esami, come al solito mio fratello, nonno Marcello e io stavamo accompagnando mia madre a Capracotta e come al solito mio padre (naturalmente con la Lella, Giuditta e forse la tabaccaia al seguito) ci avrebbe raggiunti per la settimana di ferragosto. Siamo saliti sul treno e c'era questo ragazzo strano, nel nostro scompartimento. Mia madre si è presto addormentata, mio fratello, eternamente in braccio a lei come un marsupio, anche, nonno Marcello mi pare si fosse alzato per andare al bagno, non ricordo. Perché all'improvviso c'era solo lui. – Non bisognerebbe mai dimenticarsi dei cipressi, sei d'accordo? – Ha detto, mentre Roma e i suoi alberi correvano fuori dal finestrino, fermi. E quello, ormai posso dirvelo con esattezza - eccola: la verità - è stato il momento più bello di tutta la mia vita. Gli ho risposto che sinceramente non ci avevo mai pensato ai cipressi e che se appartenevano alla famiglia delle graminacee, io purtroppo alle graminacee ero allergica, ma in ogni caso mi sarei sforzata per non dimenticarmi di loro, se la questione era tanto importante. E lui mi ha detto sei buffa. Gli ho chiesto in che senso? Buffa, ha ripetuto lui. Ho riso, come faceva Polly all'inizio del libro, quando Tom la prendeva in giro e la chiamava cafona, ma solo per prendere tempo, perché non sapeva ancora chiamarla amore mio. Ha riso. Gli ho chiesto come ti chiami? Ha risposto Edoardo. Gli ho chiesto dove vai? Ha risposto a Isernia. Gli ho chiesto hai fatto anche tu la maturità? Ha risposto no, studio filosofia. Gli ho chiesto ti piace? Ha risposto molto, mi costringe a tenere la testa aperta, mi permette di raccontarmi un sacco di bugie e di essere a prescindere contro, perché io sono fatto esattamente così, bugiardo e contro a prescindere sono, vuoi una caramella? Mi ha allungato il pacchetto. Gli ho chiesto sono al latte? Ha risposto sì. Ho detto purtroppo sono allergica. Anche al latte? Anche al latte. È allora che ha tirato fuori dallo zaino un quaderno, dove aveva scritto quei versi. E ha detto evidentemente li ho scritti per te stamattina, anche se non ti conoscevo ancora. In me sto bene / come il mare in un bicchiere / ma se sono confinata in questo calice / qualcuno mi può bere: ha declamato. Mi sono emozionata, ho cominciato a tossire. Mia madre e mio fratello si sono svegliati, nonno Marcello è tornato nello scompartimento. Edoardo ha ripreso a guardare fuori dal finestrino. Io continuavo a tossire e a emozionarmi, a emozionarmi e a tossire. Finché il treno è arrivato alla stazione di Isernia. Lui ha detto ciao, signorina Allergia. Io ho detto ciao. Lui è sceso dal treno. Noi no. Il treno è ripartito.

Quella stessa estate, avrei dato il mio primo bacio. A diciannove anni? A diciannove anni, sì. Lo so che è tardi, ma se ogni cosa che tocchi rischia di mandarti all'altro mondo, è ovvio che se si passa dalle cose alle persone ci vuole ancora più cautela, no? Infatti quella prima volta non è che sia andata benissimo. Era un mio lontano cugino, lo conoscevo da sempre. Ha mangiato un gelato, io un ghiacciolo, abbiamo passeggiato per il corso, su e giù, e sotto al portone di casa mi ha baciato: sarà stato il latte, perché sul suo gelato c'era una montagna di panna? O ero allergica pure alla saliva di mio cugino? Fatto sta che ho vomitato. Volevo almeno salutarlo e poi salire in casa, correre al bagno: ma non sono riuscita a trattenermi, gli ho vomitato sulle scarpe. Che vergogna. Non ci potevo fare niente: e non solo per l'allergia, sapete. Con quella ormai erano quasi vent'anni che facevo i conti. L'amore per Edoardo, invece, mi lasciava senza difese. A lui avevo pensato per tutto il tempo della passeggiata, a lui avevo pensato mentre mio cugino mi infilava le mani fra i capelli e avvicinava il viso, a lui pensavo sempre, dal momento in cui era sceso dal treno. – Signorina Allergia! – avevo sentito la sua voce prendermi in giro, mentre vomitavo davanti al portone. – Signorina Allergia! – Sempre con il tono scherzoso che aveva sul treno e che aveva Tom quando diceva cafona a Polly ma solo per prendere tempo, perché non sapeva ancora chiamarla amore mio. Tanto che l'allergia, quell'estate, mi è sembrata misteriosamente qualcosa che mi venisse in aiuto, anziché essere un ostacolo, perché, senza passare da maleducata: – Perdonami, non mi sento bene. – potevo rispondere a mio cugino, quando mi chiedeva di uscire. Mentre Edoardo si era definitivamente trasferito da noi, prima a Capracotta e poi, finite le vacanze, a Roma, con mia madre, mio padre e tutti gli altri. Mi sono iscritta all'università, avrei voluto fare filosofia anch'io, ma mio padre me l'ha proibito: ci mancava solo una figlia disoccupata oltre che sempre acciaccata, ha detto. Così ho dovuto scegliere Economia, e nel frattempo ho cominciato a lavorare nella ditta di confetti per tre ore al giorno, come segretaria. Ho scoperto che in ufficio mio padre e Giuditta erano considerati una coppia a tutti gli effetti: e mentre fino a poco tempo prima ne avrei parlato con Polly, adesso che avevo un fidanzato potevo parlarne con lui. Edoardo aveva davvero la testa aperta, grazie agli studi che faceva, e la sua intelligenza mi confortava molto. Ogni notte, per prendere sonno, ripetevo allo sfinimento quei versi: in me sto bene / come il mare in un bicchiere / ma se sono confinata in questo calice / qualcuno mi può bere. E mi addormentavo felice. In ufficio un paio di ragazzi mi corteggiavano: una sera sono andata a cena con uno e un'altra sera con l'altro. Ma il primo parlava troppo e con una foga inutile, il secondo aveva le mani sudatissime. E comunque in entrambi i casi era finita come con mio cugino, devo avere mangiato qualcosa di sbagliato, l'allergia ha deciso per me e mi sono ritrovata a vomitare - una volta appena fuori dal ristorante, l'altra nell'ascensore del tipo. L'unica storia che è durata almeno qualche mese, prima di quella con Giacomo, è stata con Antonio. Mia madre da qualche mese aveva finalmente cominciato a uscire di casa non solo per fare la spesa e si era messa a frequentare un gruppo di preghiera nella parrocchia del quartiere. Mio fratello e nonno Marcello naturalmente andavano con lei e una sera ha convinto anche me a seguirli. Lì ho incontrato Antonio: era gentile, timido, per tutto il tempo passato insieme si è spinto solo a stringermi la mano, una sera, al cinema. Perché aveva ben altro a cui pensare: e mentre lui pensava a Dio, io ero libera di pensare a Edoardo. In piena armonia. Quando ha deciso di prendere i voti, sono stata contenta. Davvero, non ho avuto nessuna malinconia: era la sua strada, non si era mai sforzato per nasconderlo, come io non mi ero mai sforzata di nascondere che la mia fosse con Edoardo. Non avevo idea se, quando, come e dove avrei potuto vederlo: e per Antonio, con Dio, valeva lo stesso discorso. Proprio per questo non abbiamo mai avuto bisogno di spiegazioni, fra noi è stato sempre tutto chiaro, anche e forse principalmente quando è finita. Se il gruppo di preghiera per lui era stato quindi decisivo, con mia madre invece alla lunga non aveva funzionato. Forse sperava che Dio facesse sparire di colpo la Lella, Giuditta e la tabaccaia: mentre quelle, imperterrite, continuavano a rimanersene fra noi, in cucina, in salotto, sul lampadario, fra gli spazzolini, il basilico. Anche quando Giuditta è morta, mica se ne è andata. Anzi: se è possibile, i primi tempi, faceva sentire ancora più forte la sua presenza. – Mia madre amava tuo padre come non ha mai amato il mio e forse neppure me. – Così, al funerale di Giuditta, mi si è presentato Giacomo, suo figlio. Si era laureato da poco in Medicina, sognava di diventare un chirurgo e amava la musica classica, proprio come Polly. Con lei, però, non ero mai andata a un concerto: con Giacomo sì. Mi ha telefonato qualche giorno dopo il funerale di Giuditta per invitarmi ad accompagnarlo a sentire un pianista francese che suonava a Santa Cecilia. Ho detto va bene, più che altro per il senso di colpa di avere sempre sua madre per casa, appiccicata a mio padre, quando forse, soprattutto adesso che era morta, avrebbe voluto averla lui con sé. È stata una serata piacevole? La verità? Forse sì. Anzi, sicuramente sì. Abbiamo scoperto di avere parecchie cose in comune, l'entusiasmo con cui ascoltava il pianista francese mi ricordava il mio, mentre leggevo "Una ragazza fuori moda", era spiritoso, attento, mai banale. E quando, sotto al portone di casa mia, mi ha sfiorato le labbra con le labbra, non è arrivato a mettermi in salvo o in pericolo nessun conato di vomito. Abbiamo cominciato a telefonarci, parlavamo molto. Di sua madre, della mia, di suo padre, del mio, di tutto, di musica, di niente. Alla lunga non ero riuscita a portare avanti per bene sia l'università che il lavoro, ero parecchio indietro con gli esami e lui si è messo a disposizione per aiutarmi. Ogni sabato mattina lo raggiungevo nella mansarda dove abitava con un compagno di specializzazione, e mi dava una mano. Poi pranzavamo tutti insieme: lui, l’altro specializzando e io. Tre e basta, come saremmo stati con mia madre e mio padre, se le altre presenze ci avessero lasciati soli per un istante. Inizialmente Edoardo mi accompagnava, certo: ma dopo un po' ha preferito aspettarmi a casa, perché a studiare le mie cose si annoiava e Giacomo cominciava a non essergli troppo simpatico. Lo trovava, di fondo, un po' invadente: e in effetti lo era. Mi telefonava anche solo per darmi il buongiorno, mi aiutava con gli esami, si premurava di prepararmi da mangiare stando molto attento a evitare gli alimenti a cui ero allergica. – Sei sicura che non siano di carattere puramente nervoso, le tue intolleranze? – Mi chiedeva spesso. E mi proponeva di farmi visitare da un suo amico, uno davvero bravo: – Però quando te la sentirai. Non voglio minimamente forzare i tempi. Eppure, proprio mentre diceva così, secondo Edoardo non solo forzava i tempi: ma soprattutto gli spazi. Più Giacomo si mostrava comprensivo e complice, meno permetteva a me e a Edoardo di starcene in pace da soli. Quando tornavo a casa, Giacomo, se non mi telefonava, s'infilava in un disco che ascoltavo, nel programma tv che guardavo in televisione con i miei genitori e gli altri, perfino nei versi (in me sto bene / come il mare…) che mi ripetevo per prendere sonno. Per un paio di mesi avevo fatto finta di niente: è solo di passaggio nelle nostre vite, se ne andrà e torneremo a stare tranquilli, promettevo a Edoardo. Ma presto era stato chiaro che Giacomo non aveva nessuna intenzione di andarsene. Anzi. E più restava, più ad andarsene, pensate un po', erano le mie allergie. Improvvisamente la primavera non mi sorprendeva più come un attentato. Avevo addirittura assaggiato i pomodori dell'orto del padre di Giacomo, che dopo la morte di Giuditta si era trasferito in campagna: non mi avevano macchiato le braccia di chiazze. Li avevo addirittura trovati molto buoni. Piante rampicanti, api, crini di cavallo: tanti altri erano stati i nemici, durante quei giorni in campagna. Tutti vinti senza nemmeno il bisogno di affrontarli. – Lo sapevo io, che a un certo punto la tiravi fuori, la forza. – Diceva dicendolo mio padre. – Sei o non sei figlia mia? – Ti sei fatta pure carina, finalmente. – Diceva dicendolo mia madre. Che Giacomo fosse figlio di Giuditta, lì per lì non era stato facile per lei da accettare: ma se accettava di averci sempre e da sempre quella per casa, sarebbe stato sciocco creare dei problemi proprio adesso. Adesso che sua figlia si era fatta pure carina, finalmente. – Sei bellissima. – Mi diceva Giacomo in continuazione, mentre mi spogliava e mi carezzava, piano. Solo una volta ho rischiato di riprendere a tossire e vomitare: quando si è spinto un po' più in là e dalle carezze è passato a strusciarsi addosso a me, nudo pure lui. Ma ancora prima che potessi sentirmi poco bene, mi ha guardata negli occhi, ha capito meglio di me che cosa stava succedendo e mi ha sussurrato in un orecchio: – Io non ho nessuna fretta. L'hai capito o no che voglio passare la vita intera, con te? Quella sera, a letto, Edoardo non mi ha rivolto la parola. Continuavo a cercare, nel buio, la sua intelligenza, mi allungavo per raggiungere i suoi versi, il suo tono scherzoso. Ma niente. Non mi veniva incontro, non mi rispondeva. Anche mio fratello si era fatto freddo. Distante. Lui, sempre così pronto ad attirare su di sé l'attenzione, se ne stava quasi sempre con nonno Marcello, chissà dove: uscivano presto, la mattina, e tornavano quando io dormivo già. Giacomo era diventato di casa, si fermava spesso a cena con noi e allora Giuditta, imbarazzata, preferiva andare a farsi un giro e chiedeva evidentemente alla Lella e alla tabaccaia di seguirla. Perché non si facevano più vedere nemmeno loro. Non ci capivo più niente, niente. Giorno dopo giorno la testa mi girava a vuoto. Hai voglia a fare finta, con Giacomo, che tutto andasse bene. Mi sapeva frugare dentro, lui. Mi stringeva a sé, mi accarezzava le spalle, mi baciava le braccia e mi prometteva: – Di me ti puoi fidare. Che cos'è che non va? Non devi avere paura di niente. Non quando ci sono io. E ci sarò sempre. Capito. Sempre? Anche quella sera, a cena da lui, in mansarda. Il suo compagno di specializzazione non c'era. Aveva apparecchiato la tavola con le candele, una tovaglia nuova. Mi ha servito la pasta con il sugo dell'orto di suo padre, ha grattuggiato il parmigiano: ormai mangiavo tutto. E proprio così ha ripetuto. – Ci sarò sempre. Ha tirato fuori dalla tasca un anello, si è inginocchiato di fronte a me. Allora sì. Prima che mi chiedesse quello che stava per chiedermi l'ho ammazzato. Ho preso il coltello e gliel'ho ficcato nel cuore. Perché? Perché mi girava la testa a vuoto, ve lo ripeto. E perché nel momento esatto in cui Giacomo si è messo in ginocchio, mio fratello è esploso a piangere, nell'altra stanza o chissà dove, disperato. E Edoardo mi ha sussurrato in un orecchio: – Signorina Allergia – Ma non con il suo tono scherzoso. Con un tono triste. Tristissimo. Come a dire allora mi stai lasciando per davvero, Signorina Allergia. Così ho dovuto scegliere. O Giacomo o Edoardo. O Giacomo o quello che non si vede, quello che non si deve, quello che non si può, che non si tocca, non ci tocca, quello che non significa niente, quello che determina tutto, quello per cui vale la pena esistere: quello che non esiste più, che non è mai esistito, non esisterà. Ho dovuto scegliere. Voi che cosa avreste fatto, scusate? Vi sareste appellati a una di quelle scemenze con cui ogni tanto ho provato a confondere me stessa, e magari vi ho incidentalmente confuso? Io no. Io non ho avuto dubbi. Ho fatto quello che dovevo fare. E ho ricominciato, finalmente, a tossire.


Chiara Gamberale

 

Fonte: C. Gamberale, Signorina Allergia, in W. Siti, Granta Italia, vol. VI, Rizzoli, Milano 2015.

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