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Una storia capracottese d'altri tempi


Banditi a Capracotta nel 1657.

Nel noto libro "Il territorio di Capracotta" di Luigi Campanelli, a pag. 106, leggesi: «Il nove luglio dell'anno 1657, verso le otto del mattino, irruppe in aspettatamente in paese una numerosa comitiva armata di banditi», una frangia, si potrebbe dire, di quelle bande brigantesche «che in quei tempi scorrazzavano indisturbate pel Reame di Napoli».

L'autore attinge questa notizia dal "Catalogo delle cose notabili, redatto a norma del rituale romano per la cura delle anime" dall'arciprete dell'epoca Pietro Paolo Carfagna.

L'anno prima c'era stata la peste che aveva dimezzato la popolazione del paese: «In quaranta giorni perdettero la vita 1.126 abitanti su poco più di duemila che ne contava il comune. È facile immaginare quale sgomento si fosse propagato nelle famiglie, quante cose fossero state abbandonate o distrutte, quanto disordine nelle abitazioni», dice lo stesso autore.

La pestilenza infierì con particolare veemenza nel piccolo borgo detto Casale di San Nicola delle Macchie, situato sul crinale del monte omonimo, a oriente di Capracotta, di cui era frazione. I pochi superstiti scampati alla «pestifera epidemia», per usare un'espressione del Campanelli, si rifugiarono nel capoluogo e negli altri centri vicini.

Trascorsa l'estate e cessato, con le prime piogge, il furore del contagio, i sopravvissuti cominciarono a riprendere la via dei campi per le semine autunnali.

La vita riprendeva faticosamente il suo corso. Chiusi nel proprio dolore i miseri paesani trascorsero il lungo ed aspro inverno delle altitudi ni montane.

Con il ritorno della buona stagione la speranza era tornata a rifiorire nel cuore dei poveri spiantati. Le campagne si ripopolavano: si andava a mondare il grano; si facevano le semine primaverili; si riaprivano le botteghe. Il lavoro distoglieva la gente, per guanto possibile, dai pensieri angosciosi.

Era giunta l'estate. Nove luglio. Sorse una splendida mattinata, una di quelle giornate che sono un po' la peculiarità dell'estate capracottese. Al soffio lieve del vento mattutino, nelle campagne dorate, ondeggiavano le messi mature o presso a maturare.

La gente era almeno da tre ore in piedi. Erano cominciati, in qualche agro lontano, più in basso, i lavori della mietitura, per la verità alquanto in anticipo rispetto al tempo previsto. Molti erano già nei campi o lungo le mulattiere e menavano ad essi. Ma che compagnie sparute in confronto a quelle degli anni precedenti! I loro discorsi erano ancora intrisi di rimpianto e di sconforto. Le poche botteghe artigianali risuonavano di voci e rumori.

A quell'ora del mattino quattro vecchiette salivano, cianciando sommessamente, la scalinata sconnessa che portava su al sagrato della Chiesa madre. Una di esse si tirava dietro per la mano il nipotino, per non sapere a chi lasciarlo.

La vecchia chiesa del paese, quella che era ancora in piedi all'epoca dei fatti che si narrano, era anch'essa, come l'attuale, arroccata sul culmine dei Ritagli. Ai piedi si stendeva l'abitato, che constava di vecchie casupole addossate l'una all'altra, con i tetti ricoperti delle caratteristiche lastre di pietra locale, dette lìsce. In mezzo ad esse facevano spicco, qua e là, le abitazioni dei pochi possidenti e massari, solide, di pietra scalpellata, qualcuna con lo stemma del casato sull'architrave.

Quella mattina del nove luglio il vecchio arciprete don Tobia Campanelli celebrava messa all'altare della Santissima Trinità. Erano accorse al suono della campana quelle poche donnette che abbiamo incontrato lungo la scalinata del sagrato e al tre poche. Il buon arciprete usava talvolta, durante la celebrazione del rito, dialogare con le fedeli per rincuorarle ed esortarle alla preghiera. Così fece pure quella mattina e, nel far ciò, senza avvedersene, tirò la messa in lungo.

Quando i briganti irruppero nell'abitato, chi poté si barricò in casa, sprangando gli usci, e provvide a nascondere ciò che andava nascosto. Le donne si davano la voce, gridando dai buccìtti delle finestre, che si spalancavano e si chiudevano in continuazione, aumentando il frastuono.

Il capo della masnada, tale Agostino del Mastro (registra don Luigi), sdentato, e perciò detto Boccasenzossi, sguinzagliò i razziatori per le viuzze del paese con l'avvertenza di avere alla scelta, di fare cioè pulizia dove andava fatta, nelle case dei signori, senza lasciarsi impietosire da chicchessia.

Raccomandò anche di non perdere tempo con le donne, «Perché – disse, – non è proprio il caso e poi, ricordatevelo, noi siamo uomini d'onore».

Cominciò così la feroce razzia, fra le grida d'orrore delle donne e dei bambini. Alcuni, temendo il peggio, fuggirono sotto ai Ritagli, svicolando per quei caratteristici cunicoli a volta di botte, aperti qua e là fra le case, verso la rupe, chiamati tombe (tombini). Essi servivano per lo scarico delle immondizie, per il deflusso delle acque piovane ed anche per lo smaltimento della neve acccumulatasi nelle strade. Fino a qualche anno fa ne esisteva ancora qualcuno. Altri cercarono rifugio nel vecchio cenobio sopra al Colle, edificato dalla famiglia Baccari, il quale, più che essere un convento stabile, era adibito a «rifugio dei francescani, in occasione di passaggio», si legge nel citato libro di don Luigi.

Il protervo capo brigante Boccasenzossi si piantò in mezzo alla piazzetta del paese, insieme a due suoi sgherri, e attese che gli altri manigoldi compissero la razzia.

Tutte le famiglie benestanti del paese furono passate al seraccio e alleggerite di ducati, preziosi ed altro. Da ciò si desume, scorrendo l'opera del Campanelli, dovettero essere spennati in modo particolare don Filippo del Baccaro, Leone D'Andrea, Fabrizio Carnevale, Antonio Di Tella, Mattia Pizzella, don Amico Pettinicchio, cioè tutte le famiglie più agiate. Il bottino ammontò, dice il nostro autore, a circa 30.000 ducati, cioè 130.000 lire oro, più preziosi, suppellettili ed anche bestiame.

A questo punto sorge ovvia la domanda: «E il servizio d'ordine?». Il servizio di polizia municipale era affidato, stando sempre a quel che dice don Luigi, a due guardie campestri, i cosiddetti "guardiani della difesa". In tempi normali, però, stanziavano in paese, per coadiuvare al servizio d'ordine e provvedere, in caso di bisogno, al reclutamento delle leve militari, due soldati della "sacchetta" e nove a piedi (si suppone che quelli della sacchetta fossero dei militari a cavallo, forniti di sella con le due sacche laterali). Ad essi, secondo quanto scrive Campanelli, era assegnato il magro salario di due ducati a testa. Ma la peste dell'anno prima li aveva decimati, né si era provveduto alla riorganizzazione del servizio.

Abbiamo lasciato don Tobia che celebrava messa all'altare della Trinità, nella vecchia chiesa parrocchiale; presente quello sparuto gruppetto di pie donne. La celebrazione era giunta al termine. L'eco del gran trambusto non era ancora arrivata fra le navate del tempio.

Dopo l'ultimo "Dominus vobiscum", il celebrante si rivolta all'altare giungendo le mani. Proprio in quel momento irrompono strepitando i briganti, «seguiti dal popolo piangente e implorante», si legge nell'opera citata.

Alla terribile apparizione le buone vecchiette sussultano spaventate, senza ancora capire. Il venerando arciprete, «vecchio di ottant'anni», dice Campanelli, si volta, sorpreso in volto, allo strepito. Vede gli armati, la gente, comprende e, tenendo le braccia, esclama: «Pace, fratelli! Siate buoni! Siamo tutti figli di Dio! Siamo nella sua casa benedetta! Non fate male a questa povera gente, già tanto provata!». E resta lì sull'altare, implorante con gli occhi, con il gesto, con il cuore. Parole e gesti vani, i banditi, sordi al suo grido, irrompono nella sacrestia, nel presbiterio, dappertutto e arraffano tutto ciò che ha un qualche valore: arredi sacri, calici e patene d'oro, tra il pianto e le grida delle donne.

Don Tobia, prete umile e mansueto, quando vede manomettere gli oggetti sacri, ha un fremito di sacro sdegno, di ribellione: il vecchio cuore gli balza in petto, il viso gli si imporpora e dalla bocca gli escono veementi parole di riprovazione e di condanna. Il buon parroco non sa di aver firmato la sua condanna. Forse pensa che i paramenti sacri, di cui è rivestito, valgano ad ispirare rispetto e riverenza nei banditi. Macché. Non hanno alcun sentimento di pietà. Uno di loro, infastidito, gli esplode contro a bruciapelo un colpo di archibugio.

Cade il vecchio arciprete esanime sulla predella dell'altare «cospargendola del suo sangue innocente, fra le grida d'orrore degli astanti».

«Di questi due eventi dolorosi, la peste e l'irruzione banditesca, il paese tutto restò decimato e sconvolto. Il numero dei fuochi (come a dire delle famiglie), che nel 1652, prima cioè degli avvenimenti descritti, ascendeva a 264, scese a meno di 150. Ma la popolazione si riebbe presto. Molti matrimoni riempirono i vuoti formatisi nelle famiglie e un nuovo ardore di fede sembrò risorgere in coloro che erano scampati alla morte, ai pericoli».

Con queste parole di fede e di speranza, espresse dall'autore del libro "Il territorio di Capracotta", cui più volte ci siamo riferiti e che ci ha fatto da guida, termina la presente narrazione, libera ricostruzione di fatti storicamente accertati.


(1986)


Domenico D'Andrea

 

Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.

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