Nell'Alto Molise erano ubicati i feudi di Caccavone e Vastogirardi, appartenenti - come si è detto - alla famiglia Petra: nel 1702 si traevano circa 260 ducati dal feudo di Vastogirardi e poco più di 280 da quello rustico di Caccavone. Nel primo caso, la rendita scaturiva per il 50% dalle giurisdizioni e per l'altra metà dalle rendite fondiarie e produttive; nel secondo caso, essa derivava per oltre i 2/3 dal comparto fondiario e particolarmente dai terraggi in grano, mentre l'altro terzo proveniva da due mulini e dal valcatoio. Le grandi rendite provenienti dall'attività economica dei complessi territoriali dei Petra rientravano nell'ambito dei quattro feudi rustici di Pizzi: S. Mauro e S. Maria Elisabetta, che «formavano un sol corpo»; Bralli (o Varaldo), Civitella. Erano estesi comprensori a pascolo, dove venivano fidati i greggi medio-grandi appartenenti alla "Doganella delle quattro province", e da cui scaturivano rendite ragguardevoli: oltre 530 ducati dal primo, più di 430 dal secondo, oltre 60 dal terzo e 420 dal quarto.
Nella montagna di Campobasso erano insediati, invece, i feudi di Campolieto e Campodipietra: nel Settecento, il duca di Andria, Riccardo Carafa, percepiva una rendita dalla prima comunità di poco superiore ai 350 ducati, di cui oltre il 60% proveniva dalle giurisdizioni, mentre dal secondo centro scaturivano poco meno di 230 ducati; in ambedue le località, oltre il 60% della rendita era tratto dall'esercizio delle giurisdizioni e quella restante quasi esclusivamente dai terraggi. Tale composizione era dovuta al fatto che la popolazione dell'università di Campolieto, all'indomani della crisi del Seicento era pervenuta a oltre 2.100 unità; a Campodipietra, confinante con i feudi di Civitella e S. Felice posseduti dal barone Japoce di Campobasso, la popolazione ammontava a 1.400 abitanti. Nel medesimo territorio uno dei feudi più importanti era quello di Capracotta, che, appartenuto fino al 1669 alla famiglia Cantelmo, faceva parte del seggio dei Capuana, poi estinti nella famiglia Piromallo. Alla morte, nel 1681, di Andrea Capece Piscitelli, nel relevio presentato dal figlio Giuseppe per la successione feudale, il possedimento esibiva una rendita di tutto rispetto, pari a 2.596 ducati. Di questi solo 213 provenivano da diritti giurisdizionali, di cui una buona parte dalla colletta di S. Maria. Pure la rendita del comparto manifatturiero non era delle più solide, ammontando a poco più di 284 ducati, che oltretutto provenivano sia dalle attività di follatura tessile nella gualchiera sia dalla macina del grano nei mulini, strumenti operativi messi in funzione ed adoperati per animare il lavoro rurale all'interno del feudo.
In tal modo, la fonte principale di reddito derivava dagli erbaggi degli enormi distretti compresi nei demani feudali: erano, infatti, i grandi demani provenienti dai feudi rustici di Monteforte, Macchia, Ospedaletto, Guastre, Orto Jannino, Cannavina e Cannaviniello a dare un gettito di ben 2.100 ducati. Si trattava, in tal caso, di un composito sistema di grandi difese, sovente condivise con l'università: ad esempio, per i grandi feudi rustici di Macchia, era di nove morre (una morra corrispondeva a un gregge di 100 pecore); per quelli di Ospedaletto di cinque; di Guastra e Orto Jannino di tredici. Il barone percepiva solamente i proventi derivanti dal "pascolo della sola erba estiva", mentre quelli relativi al pascolo praticato nei mesi autunnali e invernali spettavano all'università e una morra su nove veniva riservata ai cittadini locali. Alla conclusione del XVII secolo lo spopolamento delle campagne aveva fatto sì che anche i terraggi esercitati su questi demani si fossero di molto ridotti; si terraggiavano, per così dire, solo i feudi di Monteforte e di Guastra, dai quali derivavano appena 448 tomoli di grano.
Marco Trotta
Fonte: M. Trotta, Stato moderno e baronaggio nel Regno di Napoli: aspetti e problemi della feudalità nel Contado di Molise (secc. XVI-XVIII), in «Mediterranea», XIV:39, aprile 2017.
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