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La trave del Verrino


Elvira Santilli (1923-2013) con la sua famiglia al completo.

Diversi profughi rientrarono a Capracotta e riattarono le poche case che fu possibile rimettere su. Tra essi fecero ritorno anche i familiari del fidanzato di Ida. Come ho già detto, questi era stato catturato dai Tedeschi, ma riuscì a fuggire e con i suoi ricostruì la casa per potersi stabilire in paese, ove riprese il posto di segretario comunale.

Il matrimonio di Ida, nel capodanno del '45 fu per noi, in proporzioni molto ridotte, qualcosa di simile alla spedizione di Napoleone in Russia.

Ci avventurammo, alla fine di dicembre, una trentina di persone, tra fratelli, cognati e nipoti, verso il paese natale ove non avevamo più una casa. I pochi che vi avevano fatto ritorno, ci offrirono l'ospitalità e noi pensammo di usufruire della loro cortesia per un giorno, ma la notte si scatenò la tradizionale bufera del 31 dicembre, la cosiddetta scucchiatùra (separazione dei due anni), che riempì in meno di ventiquattr'ore tutte le strade e ci tagliò la via del ritorno.

Achille venne verso le nove a picchiare sui vetri di una finestra della casa di mia nonna che la neve aveva portato al livello stradale.

– Beh! ci sposiamo? – chiese facendo passare la testa incanutita insieme ad un'ondata di nevischio dallo sportellino, che in quei luoghi portano le finestre per non far entrare troppo vento quando queste si aprono.

Con la bufera che imperversava, era un'impresa raggiungere la chiesa e la casa delle suore, ove era stato allestito il ricevimento, ma il matrimonio si doveva celebrare a tutti i costi, prima che venisse giù altra neve a chiudere per mesi la strada di Agnone. Dare alloggio per molto tempo ad una trentina di persone in un paese distrutto, in cui le poche abitazioni riattate erano appena sufficienti per gli abitanti, richiedeva da parte di questi spirito di sacrificio e senso eccezionale di ospitalità. E poi c'era tutto quel ben di Dio già pronto per il banchetto che sarebbe andato a male.

Dopo un breve ed animatissimo colloquio tra gli sposi, si decise di celebrare le nozze. Fu necessario rintracciare i familiari, che dormivano chi presso un congiunto, chi presso un amico, e gli invitati, che si presentarono solo di sesso maschile, perché alle donne mancò il coraggio di affrontare la tormenta.

La cerimonia, celebrata nella chiesa parrocchiale a noi tanto cara, ebbe una nota intima e commovente; il resto assunse un carattere paesano, originalissimo in quell'atmosfera imbiancata dalla vorticosa danza del nevischio.

A sera la bufera fu sollevata con nuove e più poderose forze dai venti gelidi della notte imminente e solo i più arditi poterono scortare gli sposi alla loro dimora.

Noi raggiungemmo le case vicine al palazzo delle suore e solo dopo tre giorni avemmo la possibilità di rivedere Ida, tanto a lungo imperversarono le forze della natura.

Sorgeva ora il problema del ritorno. Bisognava affrontare il viaggio a piedi attraverso le masserie di Guastra, che menavano giù verso la vallata del Verrino. Don Olindo, in quell'occasione si dimostrò espertissimo in materia di neve capracottese. Quando decidemmo di partire, ci disse che non sarebbe stato possibile:

– Comarelle, è una pazzia voler partire – affermava gridando per avvalorare la sua competenza. Poi continuava con tono più convincente: – Dovete sapere che gennaio è il mese più omogeneo: o c'è sempre il sole o fiocca ogni giorno.

Noi ci guardavamo in viso sgomente, mentre in cuore speravamo che il buon tempo smentisse le sue convinzioni; ma ad ogni alba che sorgeva, la neve veniva giù a dispetto del cielo stellato della sera avanti, su cui, viandante solitario e pensoso, passava uno striscione cupo di nuvole nere che si partiva dalle pendici di Monte Capraro, dirigendosi verso il fiume.

Anche la nonna diceva:

– Domani fioccherà, perché è andata la "trave" al Verrino – e noi ci sentivamo intrappolati; chiusi, in verità, in una trappola piena di gentilezze e di premure, perché i pochi abitanti del paese, quasi tutti erano stati nostri ospiti a S. Pietro ed ora si mostravano lieti di ricambiare le cortesie. Ma il disagio era grande sia perché sapevamo di essere un peso non indifferente, sia perché avevamo bisogno di tante cose di cui i nostri ospiti appena disponevano per sé.

Verso la metà di gennaio la "trave" di nubi continuò a fare la sua passeggiatina serale, forse per affogare la noia tra le onde ballerine del fiume e la neve veniva ancora giù, puntuale, all'alba a distogliere i nostri propositi, destando il ricordo di "Zimpa" e delle altre vittime intirizzite tra le sue spire capricciose.

Un giorno, però, la sua comparsa ritardò di qualche ora e noi ci avviammo. La nipotina Edvige, caricata a spalla in uno zaino, fu portata da Giovannone, un nostro ex autista, grosso e forte come un lupo di montagna, e la mamma si appoggiò con un braccio al consorte e con l'altro affondò il bastoncino tra la coltre bianca.

La neve ci apparve di lontano, ma quel giorno sembrò avere tanto sonno e forse perciò scese lenta e pigra lungo la china.


Elvira Santilli

 

Fonte: E. Tirone, Oltre la valle, Cappelli, Bologna 1968.

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