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Zia Elvira Janiro e Giuseppina Santilli (I)


B. Santilli, "La stella per tutti", 2007, olio su tela.

Premessa

Questa indovinata commemorazione promossa dalla famiglia Santilli e caldeggiata calorosamente da me, ha dello straordinario, non tanto per il modo col quale si è voluto organizzarla, quanto per il fatto che desterebbe stupore, proprio in coloro che, insieme, abbiamo inteso riportare alla nostra memoria, con sensi di devota ammirazione e gratitudine: zia Elvira Janiro e Giuseppina Santilli.

 

Insieme nel ricordo

Il primo decennale della loro morte, distanziata di pochi mesi nel 1983, ci consente di accomunarle in un unico familiare ricordo.

Anche se nella diversità della loro immagine, come per età ed esperienza di vita, anche se da vie diverse, come vario era stato il tracciato del loro cammino umano nella storia della loro esistenza terrena e della loro testimonianza cristiana, tuttavia, ci ritornano idealmente riavvicinate nella complementarietà della loro affinità di sangue e di fede, in una parola, in quello che meglio si definisce "santità della vita": occhi al Cielo e piedi a terra.

E se potessi suggerire una "scultura" che le ritragga in questo accostamento, amerei contemplarle "mano nella mano". E per dare un significato leggibile al "gruppo", suggerirei la scritta: «L'uomo guarda la statura, Dio guarda il cuore!».

E sì, perché se il motivo immediato con cui gli uomini sono adusi a valutare la prestanza fisica aveva poco spazio per fissare sulla carta la loro statura a lettura di metro, c'era e c'è un'altra misura per graduare lo stile della loro personalità, con i doni che l'arricchivano, da sorprendere come in uno spazio corporeo così brevemente circoscritto dalla natura, e poi, così impoverito dall'afflizione dei mali, così mortificato, potesse convivere elevatezza di spirito e dinamismo interiore, tanto segreti e pur tanto attraenti.

 

Profilo

Per tentare un loro giusto profilo, conviene partire appunto da quel "dinamismo", cioè dalla loro "spiritualità", gestita con varia iniziativa, come filo conduttore, nella composizione armonica delle "realtà terrene", sempre valutate nella giusta dimensione, e finalizzate per la ricerca della propria e altrui santificazione.

Ho detto "realtà terrene", perché nessuno pensi che «gli occhi al Cielo» poteva loro impedire di sentirsi ed agire con «i piedi a terra».

Chi le accostava, provava immediatamente di trovarsi con persone lontane dall'astrattezza dei "visionari": con donne "feriali" senza aureola, piene di sollecitudini familiari comuni a tutte le donne del paese; persone cioè della normalità. Donne, in una parola. Dove la "femminilità" andava poi argomentata guardandole negli occhi.

Zia Elvira e Giuseppina ignoravano di portare avanti un loro personale "messaggio", che sarebbe poi stato raccolto - come facciamo ora - in eredità benedetta, una sorta di testamento spirituale non dettato.

Come quei fiori di campo che ti devi piegare per scovarli nel fogliame, e solo quando li hai tra mano, ti sorprendi del loro raro profumo e delle gradazioni di colore delle povere corolle.

 

Zia Elvira

L'una, zia Elvira, se ne andava per le strade del paese ammantata di nero, sempre, come chi non può dimenticare certi simboli dettati dalla tradizione o da una storia di famiglia, sofferta; con quello scialle che, oltretutto, le serviva anche da schermo per difendere e celare quella deturpazione della parte di volto dove restava sbarrato nel vuoto l'occhio inservibile da tanto tempo.

Se la meta non erano le chiese, lo erano notoriamente le case che l'attendevano a farsi voce di consolazione o in attesa di un soccorso, modesto finché si vuole, ma offerto con quel distacco sorridente che bastava a soddisfare l'attesa.

Ci volle una caduta banale quanto mirata a porre fine a un'esistenza che si sgranò in una sequenza di episodi da identificare francescanamente come "fioretti", ad alcuni dei quali mi provo a dare una propria intitolazione. Eccoli:

  • "sorella acqua", una passione più che ecologica;

  • la "scorta per una cieca", atto di carità eroico;

  • "furtarelli benedetti", quello che supera...

Da interpretare così:

  • quella che poteva passare per una "mania" per l'uso frequente dell'acqua, andava letta in chiave simbolica di pulizia purificante;

  • quello che poteva apparire un "assurdo", di una cecuziente che accompagnava una cieca, era un'opera di misericordia, ai confini del rischio;

  • quello che poteva interpretarsi come "abuso" proprio in famiglia, che sapeva e tollerava liberamente, aveva lo scopo evangelico di donare il superfluo.

Tutta una strategia condotta con una semplicità sconcertante, quando, vedendosi tradita dalle fette di salame sfuggite alla presa o dalle gocce di olio che svelavano, traditrici, il segreto, i suoi sussurri indistinti come preghiere a fior di labbra, commentavano l'accaduto, quasi a chiedere scusa.

Sono questi, alcuni tratti di un profilo che meriterebbe ben altre considerazioni ma che, pur nella loro brevità, nella loro essenzialità, nella loro modestia, nella loro voluta parsimonia, quasi attinti da un guardaroba di poche cose eleganti, sono bastevoli ad incorniciare l'immagine di una donna del popolo così piccola e così amabile.

 

Giuseppina

L'altra, Giuseppina, vulnerata da piccola da un handicap generato da una banale caduta, divenuto poi un male che le sarà per sempre compagno, e che, come scrive la sorella Elvira nel suo "Oltre la valle" «nel contatto con la vita» le aveva «fatto conoscere la ragione dell'esistenza nella fede», convinta, Giuseppina, «che chi non ha sofferto in terra, non potrà gustare le gioie del Paradiso». E col tempo si appropriò di quello spirito di donazione che nella spiritualità dell'ascetica cristiana spinge fino al sacrificio.

Ed è sempre la scrittrice Elvira a sottolineare per sua sorella l'inconcepibile "idea paradossale" della "sofferenza" sposata all'idea della "felicità", «forse perché la gioia perenne – scrive – ha qualcosa di monotono».

Lo spirito di donazione di cui ho detto si concretizzò in zelo per le "missioni", fino a farla protagonista di un ideale che pur essendo di frontiera, non castiga chi, amante di Cristo, può concorrere alla salvezza del mondo, commisurando l'infermità corporale con la forza esuberante dell'entusiasmo.

E non è da credere che Giuseppina giocasse sul risparmio di sé; ed è qui, sotto certi aspetti, il "paradosso" della scrittrice: e cioè, dove altri aveva le carte in regola per suggerirle cautela, prudenza, riguardo al proprio stato, per lei era affare suo non dispensarsi dal sentirsi "missionaria".

II coinvolgimento era assicurato. Un "missionario" giunto in parrocchia, sapeva a quale porta picchiare.

II parroco ci stava, perché la riteneva il suo "braccio destro". Le "missioni", per suo merito, erano diventate il crocevia di ogni attività pastorale. La sua casa, una specie di "porto di mare", per dir così, non perché le porte erano sempre aperte, ma perché tutti sapevano che più di quelle era spalancato il cuore!

Forse è nello stile caratteriale dei Santilli, il "senso dell'umorismo", ma in Giuseppina direi che si manifestava con contenuti di giovialità simbolica, quasi associata fisiologicamente ad eludere il suo stato di sofferenza, sulla quale, se il caso lo richiedeva, giocava scherzosamente la carta della nota umoristica. Quasi a dispensare gli altri da quei sentimenti di gratuita compassione, se non sono, poi, sorpresa o rifiuto.

 

Particolari d'insieme

Per tutte e due, questi sono profili essenziali, rapidi come graffiti, che risultano veridici quanto più si è avuto la fortuna di accostarle.

Accostandole, infatti, ti accorgevi che ti suggerivano, ognuna a modo proprio, il gusto dell'ascolto, il desiderio spontaneo della familiarità, la naturalezza della convivialità. E il tutto condito dalla compiacenza invitante che suggerisce un dipinto, come quello della sorella pittrice Bianca, dove il paesaggio si carica di folgorazioni dell'arcobaleno.

Se avevi un po' di fede - ma se non ne avevi ti coinvolgevano con una manovra conciliante - se avevi fede, dunque, dovevi renderti conto di come, su un terreno così fragile umanamente, fiorissero virtù morali che, assommate, rifluivano nell'unica dimensione evangelica, che dire amore, è lì meglio per sottolinearle.

È in questa dimensione che le due immagini, senza perdere nulla della loro personalità e della loro identità, quasi si soprapponevano, ai confini di una spiritualità tutta personale e che, tuttavia, le convogliava nell'accordo di un comune ideale di servizio di carità. Tra mormorii oranti per l'una, ed espansive manifestazioni d'intima letizia per l'altra.

E tutto per amore, ricco nella trama dell'esperienza per l'una, innamorata del Cuore di Cristo, arricchito da vivace operosità, per l'altra, presa dall'ideale missionario.


Geremia Carugno


 

Fonte: G. Carugno, Zia Elvira Janiro e Giuseppina Santilli, Capracotta 1993.

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