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L'Ultima Cena di Capracotta

  • Immagine del redattore: Letteratura Capracottese
    Letteratura Capracottese
  • 4 giorni fa
  • Tempo di lettura: 9 min

Ultima Cena Capracotta
Il dipinto dell'Ultima Cena (foto: A. Mendozzi).

Et in Arcadia ego


Assunto da poco l'incarico di organista della Chiesa Collegiata di Capracotta, a pochi giorni dal compiere la maggiore età, approfittavo dei pomeriggi per passare qualche ora immerso nello studio alla consolle del Principalone. Ricordo che, durante uno di quei momenti, un violento fortunale si abbatté sul paese con una pioggia così intensa da farmi interrompere a metà il brano che, studente maldestro, stavo evitando di "maltrattare" eccessivamente. Un tonfo improvviso, quasi una detonazione, seguìto da un fortissimo scroscio provenne dalla Cappella della Congrega. Correndo attraverso la chiesa deserta, ne aprii la porta e la vista di cosa era accaduto mi traumatizzò. Un ampio tratto del pesante intonaco era crollato dal soffitto con i relativi stucchi mentre dalle tavelle denudate, come da una gigantesca e mostruosa ferita, un torrente d'acqua cadeva dall'alto allagando il pavimento ingombro di macerie. Di ritorno all'organo, nella sacrestia, un rivolo d'acqua cadeva dal soffitto scorrendo sull'antico armadio e gocciolando sui libri al suo interno. Un senso di ineluttabile disperazione, mista a rassegnazione, per la presa di coscienza dell’abbandono in cui stava precipitando non solo la chiesa ma, come un simbolo, tutta la cultura di Capracotta, già devastata dallo spopolamento, mi rimase addosso per molto tempo. Avevo torto. Il fiorire, mai come oggi, di associazioni culturali tese alla riscoperta del nostro passato insieme alle numerose iniziative degli enti locali senza contare il restauro della Chiesa Madre e del suo organo, la nascita del coro polifonico si manifestano come una luce, spero sempre più intensa e duratura, che sembra allontanare le ombre di uno squallido e terribile oblio. A tutti gli operatori di questi gruppi, ai promotori delle iniziative culturali, ai partecipanti, agli amministratori comunali e parrocchiali di qualsiasi colore che hanno lavorato e tuttora operano instancabili per il rilancio di questa Comunità dedico queste sconclusionate righe. Diverse le strade, le idee e le opinioni ma unico l'obiettivo finale.

Letteralmente rapito dalle pubblicazioni comparse su Letteratura Capracottese e su "Amici di Capracotta", mi sono appassionato nello sviluppare un rudimentale studio sul quadro in olio su tela raffigurante "L'Ultima Cena" che campeggia sul Coro della Chiesa Madre e sovrastato dalla splendida cantoria.

Alle brillanti osservazioni di Francesco Mendozzi e di Francesco Di Rienzo, ascoltate anche dalla loro viva voce, si aggiunge, senza pretese, qualche nota di un terzo Francesco.

Per l'attribuzione dell'opera, tradizionalmente legata al nome di Francesco (...e quattro!) Solimena (1657-1747) detto anche Abate Ciccio, non posso che accettare quanto più volte affermato da chi mi ha preceduto: sicuramente fu opera della sua bottega ma non abbiamo prove sicure della diretta mano del pittore. Peraltro sono riportate, sparse per il Sud, altre opere raffiguranti lo stesso soggetto attribuite alla sua scuola: non era raro a quei tempi che nelle varie botteghe pittoriche o scultoree il maestro dava lo spunto o curava il bozzetto che poi veniva eseguito e completato dagli allievi. Ad esempio, nella Cattedrale di Rieti è conservata una scultura raffigurante santa Barbara (patrona della città) attribuita ad allievo anonimo di Gianlorenzo Bernini (1598-1680) ma su disegno diretto del Maestro.

Il tema dell'Ultima Cena è stato più volte ripreso dalle scuole pittoriche: è il momento della istituzione della Eucaristia che sarà il punto centrale della celebrazione della Santa Messa nella Chiesa Cattolica, la base del dogma della transustanziazione del corpo e del sangue del Cristo. Celebre quella di Leonardo da Vinci commentata di recente anche dall'amico e maestro Aldo Trotta in una appassionante e intrigante relazione su uno dei significati simbolici legati alle figure. Infatti la pittura così come avviene in tutte le altre arti non è solo la fotografia di un momento storico o leggendario ma anche un modo per includere a fini didattici elementi metaforici ed allegorici intuibili o nascosti legati alle convinzioni dei committenti e a quelle personali dell’artista spesso in contrasto tra loro e con i canoni ufficiali. I maestri di tutte le epoche hanno lavorato e giocato su questo argomento. Il messaggio percepibile (essoterico) si lega a quello nascosto (esoterico). Ma andiamo per gradi e per simboli...

Il momento cristallizzato nel "nostro" dipinto è la benedizione del pane e del vino: il Cristo benedicente è al centro della scena e fonte di gran parte della luce che pervade la scena a ricordare che è lui il lumen gentium. In altre raffigurazioni, come in Leonardo, invece il momento è quello della rivelazione del prossimo tradimento seguito dallo stupore squassante degli apostoli in reazione a tale notizia. La figura di Gesù appare triangolare a ripresa del tema trinitario e il contrasto tra il volto rivolto al cielo con la mano alzata a benedire mentre l'altra posata sul tavolo su un oggetto non definibile (un rotolo = la Sacra Scrittura?) indica la prossima ascesa al cielo e la accettazione della volontà del Padre ma l'esistenza di un ultimo legame con la terra o un lascito verso di essa (il Vangelo?) o la ripresa del «come in cielo così in terra».

In posizione diametralmente opposta, in deciso contrasto alla figura del Cristo e con il viso, parzialmente avvolto nell'ombra e rivolto verso l'osservatore, Giuda Iscariota sta meditando su quanto sta per compiere (la mano sinistra sulla bocca) mentre con la mano nasconde, sotto il bordo del tavolo, quello che sembrerebbe essere il sacchetto dei trenta denari, elemento molto frequente nei dipinti del periodo. La bassa e appuntita attaccatura dei capelli con il corto naso adunco ha un preciso riferimento alla raffigurazione, lombrosiana e mefistofelica, tipica dei canoni dell'epoca, dei lineamenti ascritti ai «deicidi e perfidi» ebrei, in contrapposizione alle figure più "romane" e "cristiane" degli altri apostoli. Giuda poiché traditore restava ebreo, gli apostoli erano passati oltre. In dipinti coevi tali caratteri sono spesso ancora più esasperati. Questa falsa, triste e discriminante iconografia resterà purtroppo a lungo nel corso della Storia.

Un agnello nel piatto di portata davanti al Cristo, pronto per essere consumato, richiama il tema dell'Agnus Dei, il cui sacrificio porterà alla Redenzione dell'uomo. Il calice di cristallo posto accanto, che si osserva anche in altri quadri simili, è la raffigurazione del Sacro Graal: la coppa in cui, durante la Crocifissione, Giuseppe di Arimatea raccoglierà il sangue del Crocifisso morente. Non a caso molti autori ritengono la parola Sacro Graal, descritta per la prima volta nel Medioevo da Chrétien de Troyes (Saint Graal) come corruzione del termine Sang Royal (= Sangue Reale). Ma questa è un'altra storia.

Alla destra del Redentore, Giovanni, l'apostolo «che Gesù amava», si è appena distaccato dall'abbraccio sul Suo petto e, con le braccia raccolte e gli occhi chiusi, cerca di conservare, nel suo cuore, la divinità di quella stretta (Gv 13,25). Egli era il suo vero amico e testimone privilegiato, sempre presente in ogni episodio evangelico: l'apostolo a cui il Cristo morente affidò la Madre, colui che «da quel giorno prese Maria con sé»(Gv 19, 25-27).

Alla sinistra del Cristo, Pietro alza lo sguardo a partecipare alla Sua visione celeste come in presagio alla Chiesa che su di lui sarà edificata ed al compito di conservare le chiavi del Paradiso. Il coltello incrociato al di sopra della forchetta davanti alla sua figura ricorda l'arma con cui fra poco reciderà l'orecchio di Malco, il servo del Sommo Sacerdote, mentre queste due posate formano anche la croce rovesciata su cui il primo Papa sarà martirizzato in Roma.

Poco più a sinistra dell'osservatore, vestito di rosso, Tommaso è riconoscibile dalla mano chiusa a pugno con il solo indice levato: sarà quello il dito che il Risorto inviterà a porre nel Suo costato per convincerlo alla veridicità della Resurrezione.

Quattro, come gli Evangelisti, le possenti colonne alle spalle dei convitati ma, a sinistra e sul fondo altre due colonne antiche che si perdono nella nebbia della visione celeste a rammentare le due colonne del Tempio di Salomone, Joachim e Boaz, o del Maestro e dell'Apprendista (e qui forse un riferimento massonico): il Vecchio Patto che viene sostituito dalla Nuova Alleanza. Molto anziano, come in tutte le raffigurazioni, Matteo Levi, al fianco di Pietro, esattore delle tasse, è identificabile dal libriccino contabile posto davanti alla sua figura.

Oscuro, se non misterioso, il significato dell'oggetto davanti al tavolo ed in primo piano. Identificabile da alcuni come una saliera e quindi simbolo di regalità e sapienza potrebbe essere un chiaro riferimento alle leggi mosaiche e riferimento alla pulizia morale e al legame tra uomo e Dio (Lev 2,13). Tuttavia, mia osservazione, osservando il basamento bianco si nota una impressionante somiglianza al basamento bianco del fonte battesimale della Chiesa Madre. Quindi prendendo questo come allegoria del Battesimo che Gesù ricevette da Giovanni il Battista, l'oggetto superiore potrebbe essere il vaso di alabastro contenente gli unguenti profumati che la peccatrice versò sui Suoi piedi: Egli era il Mashiah, il Messia, l'Unto del Signore. Ecco allora, con il balsamo riparatore, i simboli della Sua regalità Celeste e Terrena e la testimonianza del Suo potere di rimettere i peccati a chi ha fede in Lui: «la tua fede ti ha salvato» (Lc 7,36-50). Molti i passi evangelici esaltanti la potenza salvifica della Fede che poi saranno anche il fondamento delle riflessioni operate da Martin Lutero ed alla base della Chiesa riformata.

Sicuramente collegato e richiamante la simbologia dell'Unto del Signore è il libro aperto posto sul leggio in alto a sinistra. I miei complimenti più sinceri ed ammirati a Francesco Mendozzi che è riuscito a decifrare le parole scritte sulle pagine aperte: trattasi, come ha sagacemente intuito, dei versetti relativi alla preparazione dell'olio santo per le unzioni sacre e per il servizio del Tempio (Es 30, 22-25). L'olio che ha consacrato i Re d'Israele, l'olio con cui il profeta Samuele unse Saul primo Re e con cui poi lo stesso Saul unse David dalla cui stirpe regale discese Gesù. Inutile ricordare che Christos in greco, derivato da Mashiah, significa proprio "consacrato", "unto".

Passiamo ora alla figura alla estrema sinistra del dipinto: l'uomo che versa l'acqua. Interessante e suggestiva la dissertazione analitica che Francesco Mendozzi sviluppa circa l'identificazione di questa figura con Giuda ormai ridotto a servo e quindi escluso dal novero dei Dodici poiché già sostituito: una considerazione altamente conscia del significato allegorico legato alle pitture di questo periodo. Tuttavia - e il più che stimato amico Francesco mi perdonerà - consentitemi di affiancare alla sua stuzzicante teoria delle ulteriori osservazioni a mio parere inquietanti.

L'uomo che versa l'acqua non è infrequente in tali rappresentazioni: è identificabile, secondo alcuni, nel servo che Gesù ordina ai discepoli di seguire per trovare i locali in cui consumare la Cena. Nella nostra tela il suo volto non è definito, lasciato in ombra e sfumato. La prima stranezza: in quei tempi attingere l'acqua in Israele era compito affidato alle donne e l'episodio di Gesù e la Samaritana al pozzo di Sicar (Gv 4,5-42) ne è un tipico esempio. Tra l'altro tale passo evangelico è rappresentato nella pittura che adorna la balaustra del pulpito della nostra Chiesa Madre. Va riportato che alcuni autori collegano a tale figura anche il ricordo della trasformazione dell'acqua nelle nozze di Caana. Il Cristo sapeva che i discepoli non avrebbero avuto alcuna difficoltà ad identificarlo poiché era una situazione inconsueta agli occhi di un osservatore ebreo di quei tempi. Non solo, aggiungerà: «seguitelo e là dove entrerà dite al padrone di casa: il Maestro dice dov'è la mia stanza» (Mc 14, 12-26). Quindi se la semantica non è una opinione e gli antichi lo sapevano bene, e sapendo che le Scritture sono estremamente precise su parole e termini, il Cristo conosceva bene il padrone e i suoi servi, e il padrone sapeva già che avrebbe ospitato quella Cena. Ricordiamo che tale ambiente, che Gesù sapeva esser al piano superiore della casa, era sito nel quartiere dedicato agli esseni (a Gerusalemme una porta della città era chiamata Porta degli Esseni) e solo gli esseni, poiché votati alla castità, avevano servitori esclusivamente di sesso maschile. Aggiungiamo che Giovanni Evangelista pone la Cena al mercoledì 15 Nisan in disaccordo con gli altri evangelisti che la pongono al 14 Nisan e che da nessuna parte figura che tale Cena sia effettivamente la cena della veglia ebraica. Inoltre gli Israeliti, al seguito di Gesù ormai prigioniero, rifiuteranno di entrare nel pretorio da Pilato per la prima udienza onde evitare di contaminarsi e non poter celebrare la Pasqua. Quindi la Pesach, o pasqua ebraica, non era stata ancora celebrata. A questo punto sorgono decine di domande di cui posso dare una piccola selezione. Gesù seguiva un calendario diverso? Era il calendario degli esseni? Giovanni è in errore? Aggiungo che durante la crocifissione i soldati che si erano divisi le vesti di Gesù, tirarono a sorte per la tunica poiché tessuta in un solo pezzo (Gv 19, 23-24) e una voce, non confermata, riteneva che tale indumento fosse tipico degli esseni. Gesù era esseno o comunque collegato agli esseni? E se decine le domande centinaia le pagine scritte al riguardo. In ogni caso direi che il Redentore non celebra la Pasqua ebraica ma una Sua Cena.

Pertanto, cosa intendevano i pittori di quei tempi inserendo "l'uomo dell'acqua"? Una figura apparentemente secondaria ma qui esaltata proprio dal suo permanere sfumata e nell'ombra (nascondere mostrando e mostrare nascondendo). Di quali segreti erano a conoscenza in opposizione o in aggiunta ai committenti?

E ancora una volta, come scriveva Vittorio Messori, la grande e unica domanda importante, posta secoli prima da Mosè al roveto ardente, ripetuta da Pilato e oggi da noi duemila anni dopo, è sempre la stessa: «Chi sei?»


Noi ci sediamo in cerchio e supponiamo,

ma il Segreto si siede in mezzo e sa.

[R. L. Frost]


Francesco Di Nardo

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