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TOMMASO GRAMMATICO

(Aversa, 1473 - Napoli, 1556)

Giureconsulto del Sacro Regio Consiglio​

Quando si pensa al Rinascimento e al rifiorir delle lettere e delle arti, l'immaginario vola dritto verso Firenze. Del pari è necessario ribadire che è esistito un Rinascimento pienamente napoletano e che, seppur mutuato dai modelli toscani, ha coinvolto l'intero Regno di Napoli, la cui corte aragonese si dimostrò favorevolmente permeabile alle raffinatezze umanistiche. È in quest'ottica che va contestualizzata la prima delle novelle che ho presentato, quella del Grammatico. Contenuta in un manoscritto conservato - non a caso - nella Biblioteca Marucelliana di Firenze (ms. C. 369.II), la "Novella della nuova confessione" è una prosa considerata minore rispetto a quelle dei contemporanei Francesco Galeota (1446-1497) e Pietro Iacopo de Gennaro (1436-1508) ma che, a mio avviso, riveste un'importanza fondamentale per la cultura altomolisana in particolare e per la lingua italiana in generale. La novella del Grammatico, infatti, se da un lato è testimone affidabile dei luoghi e delle usanze dell'Alto Molise, dall'altro fa largo uso del volgare, di parole dialettali e di forestierismi, tutti vocaboli che di lì a poco entreranno nella lingua italiana corrente. Per quanto riguarda la prima dimensione, quella narrativa, la trama vuole che il protagonista - lo stesso Grammatico, presumibilmente - giunge a Capracotta per dirimere una contesa tra «magnate e nobile persune» della cittadina e il «venerabile priore de San Luca del Pesco e lo condam abbate de Sancto Angelo» per via d'una eccentrica pratica confessoria che questi ultimi han stabilito fra di loro. Il giurista decide quindi di recarsi dal priore di Pescopennataro per sentire la sua versione dei fatti, dopo aver ascoltato quella di coloro che l'hanno chiamato in causa. In casa del priore, dopo aver cenato e chiacchierato con altre persone, il prete comincia il monologo. In cosa consista la «nova forgia de loro concertata confexione» è presto detto. I due preti, dato che vivono in località sprovviste di clero collegiale, non possono praticare la confessione, necessaria per il sacramento della Penitenza. L'unica possibilità è quella di confessarsi a vicenda, come inizialmente fanno, finché «per la prenominata distancia [...] e fredo e neve» diventa per loro impossibile incontrarsi. È a quel punto che al priore di San Luca balena la brillante idea di utilizzare un «cagnolo in casa longamente allevato», al quale lega al collo una cartuccia contenente i peccati commessi, dopodiché, «gridandolo con strepito de le mano e de pedi fuori de casa», la povera bestia se ne parte per Sant'Angelo del Pesco, dove il cane era solito accompagnare il priore e dove l'abate del posto prende ora in consegna la cartuccia per assolvere l'altro dai peccati. Sul medesimo foglio egli appunta infatti la penitenza per il compagno e contemporaneamente annota i peccati suoi, rispedendo il cane a San Luca con egual compito. Dopo un prolungato periodo di tal pratica, avviene che «'l cane, non sensa dispiacere e comune lacrime de ciaschuno, se morìo», facendo sì che il problema su come confessarsi si ripresenti. Stavolta il priore pescolano pensa di posizionarsi su «una serra altissima» - forse Monte San Luca (1.584 m.s.l.m.) - e da lì, presso «una grande arbore de noce», gridare i propri peccati in latino giù nella valle dov'è adagiata Sant'Angelo del Pesco. Alla fine della storia l'abate santangiolese muore, procurando un immenso dispiacere all'amico di San Luca, che infatti termina il proprio discorso con una invettiva verso teologi e dottori della Chiesa che mai son riusciti a ideare una pratica confessoria in grado di risolvere problemi simili. A ben vedere, la "Novella della nuova confessione" è sì una storia di fede - visto che i due religiosi fanno di tutto per seguire i precetti cristiani - ma è soprattutto una storia d'amicizia, coi due che si adoperano affinché il segreto della confessione resti tra loro soltanto, vedendosi in privato, poi nascondendo i propri peccati nel collare d'un cane, quindi gridandoseli a vicenda in lingua latina per non essere intesi dalle «vulgare et ignorante [...] persune», il che non fa che rinsaldare i loro rapporti amicali basati sulla fiducia, la comprensione e l'intimità reciproche. Persino nel raccontare la propria versione dei fatti al giureconsulto Grammatico, il priore di Pescopennataro bada bene a chiudere l'uscio di casa per «non essere in la vulgar gente altramente sua pratica divulgata». Per quanto concerne la seconda dimensione, quella linguistica, nel testo di Tommaso Grammatico vi sono diverse parole derivanti dal napoletano e dallo spagnolo, e che negli anni andranno ad ingras-sare persino il dialetto capracottese. Segnalo per l'appunto alcuni casi emblematici come «mayestra» (= maestra, in capr. maiésctra), «havesseno» (= dovessero, in capr. avìssena) oppure «cussì» (= così, in capr. accuscì). Per quanto riguarda la terza dimensione, il primo dato da studiare è quello territoriale: dal racconto traspare una netta differenza tra il «loco più hoccurrente de una de le parte nominato Capracocta», in cui Grammatico alberga, e il «loco nominato il Pesco», in cui il giurista si reca per conoscere l'altra versione dei fatti prima di pronunciarsi in merito. Questa dicotomia lascia supporre che Pescopennataro e Sant'Angelo del Pesco fossero una sola unità amministrativa, come diversi studi hanno già confermato. D'altronde, è lecito credere che la Chiesa di San Luca fosse nel centro di questa divisione, tanto che lo sperone di roccia che ospita l'eremo e l'antica cappella di San Luca, ieri come oggi, ricadono nel Comune di Capracotta, mentre la nuova chiesa in quello di Sant'Angelo del Pesco: Pescopennataro è proprietaria del bosco di conifere che fa da cornice a questo arcaico presidio religioso, a riprova delle controversie che le tre località hanno avuto sino al 1852, anno in cui venne tracciata una pianta topografica di Prato Gentile e Stocco, «suolo quistionato da Capracotta, Pescopennataro, e S. Angelo», in cui vennero definiti i confini. Un punto di notevole interesse antropologico sta nella «absencia de lor conjunti in le parte più calde de la Puglya per propagare loro gregi et armenti», dimostrando - se mai ce ne fosse bisogno - che la pratica della transumanza era ampiamente utilizzata anche nel '400, coi capracottesi e i pescolani che si allontanavano dalle proprie famiglie per portare le greggi in Capitanata o più a sud. Resta in piedi un'ultima domanda: la novella del Grammatico è frutto dell'invenzione o è storia vera? Non è possibile fornire una risposta certa ma propendo per la seconda ipotesi, dato che l'illustre giureconsulto aversano non aveva modo di conoscere i nostri «alpestri lochi» se non attraverso l'obbligatoria peregrinatio del suo ufficio giurisdizionale che il 3 giugno 1535, per volontà del viceré Pedro de Toledo (1484-1553), lo portò ad esser nominato membro del Sacro Regio Consiglio, il massimo tribunale napoletano.

  • F. Mendozzi, Quattro novelle per l'Alto Molise, Youcanprint, Lecce 2018, pp. 69-74.

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