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La fondazione romana di Capracotta



Iuppiter, Te hoc ferto obmovendo,

audi civium preces

et hostes a Patriæ finibus arce!

Hæc sunt capras Cottæ!


Il titolo del presente articolo è abbastanza eloquente. Vi spiegherò per quale motivo credo che Capracotta sia stata fondata dai Romani due secoli prima della venuta di Cristo e perché debba il suo nome al sacrificio di tre capre in onore del console Gaio Aurelio Cotta. Non pretendo che il mio articolo sia universalmente riconosciuto come scientificamente valido ma, perlomeno, ce la metterò tutta per convincere i lettori.

Prima di esporre la mia ipotesi è bene spiegare le ragioni per cui non credo alla validità delle altre numerose teorie sulla fondazione di Capracotta, e la prima motivazione, forse, le racchiude tutte: la capillarità del dominio di Roma sulla religione, la politica e l'esercito delle società sconfitte. Questo presupposto esclude a priori ogni attestazione anteriore alla Repubblica romana. Prendere per buona l'ipotesi osco-pentra e pensare che un qualche sintagma originale sia sopravvissuto alla plurisecolare dominazione romana è, secondo me, un azzardo. Della civiltà dei Sanniti - e degli Osci in particolare - non è rimasto praticamente nulla, se non nelle forme assoggettate, modificate e mutuate dai Romani, e nessun toponimo altomolisano risulta oggi conforme a una qualche lingua preromana, dal Verinus (Verrino, dal prefetto Lucerio Verino) ad Alvastam (Guastra) e Maccla (Macchia) - per citare nostri toponimi propri - con l'eccezione di qualche traslitterazione dalle lingue sannitiche avvenuta comunque dopo l'arrivo dei Romani e per merito della loro intraprendenza mercantile, il cui caso emblematico è quello di Staffoli, una «fermata, al pari di tante altre delle antiche vie romane, [che ricava] il suo nome dalla stalla in cui aveva luogo il ricambio dei cavalli, e che [nel] l'indicazione odierna riproduce fedelmente il grido "ar staflo" (lat. ad stabula), che il mulio osco faceva risonare all'orecchio dei passeggieri in quella località». È necessario comprendere che la sostituzione di valori realizzata dai Romani a danno dei Sanniti dovette essere particolarmente invasiva e intransigente, data l'estrema "riluttanza" con la quale il Sannio si piegò a Roma. Lo stesso discorso vale successivamente per il Cristianesimo quando si premurò di estinguere e sostituire ogni segno romano-pagano.

In questo contesto si va sovente ripresentando un errore ricorrente degli studi toponomastici minori. Il case study è quello di Pescopennataro, che deve il proprio pesculum tardo-latino al sannitico pesstlun. I sostenitori dell'ipotesi filosannitica si basano infatti soltanto sull'origine della parola e non sul significante, men che meno sui motivi della mutazione lessicale. Questo errore metodologico li porta a indagare termini via via più antichi e ad allontanarsi dal luogo geografico in cui il nome esiste per definire quel preciso centro abitato, cosicché il Pesculum Pignatari (masso di Pignataro) diventa, nei loro astrusi calcoli sintattici, una semplice sporgenza contornata da conifere, un nome che potrebbe essere destinato a mille altri luoghi italici oltre a quello peculiare di Pescopennataro. In soldoni, il fanatismo degli studi filosannitici vorrebbe presumere che Pescopennataro fu fondata dai Sanniti perché pesculo e pinna sono parole di origine sannitica, il che equivale a dire che l'Eni fu fondato dagli arabi perché la nafta proviene dal latino naphtha, che proviene dal greco náphthas, che proviene in ultima analisi dall'arabo al-naft.

Il mio stupido sarcasmo non esclude, ovviamente, che in epoca preromana, tanto Capracotta quanto Pescopennataro fossero abitate, ma, sulla base delle scarsissime vestigia e dell'arretratezza della società sannitica, è lecito pensare che questi luoghi così aspri e inospitali fossero semplicemente accampamenti eterogenei di pastori nomadi, e che quindi non si possa parlare né di un reale atto fondativo né, tantomeno, di un toponimo resistente agli scuotimenti della storia successiva.

Stemma della città di Gateshead.

Saltando a piè pari il millennio che va dal V secolo a.C. al V secolo d.C. - di cui mi occuperò più avanti - abbiamo, dopo la caduta di Roma, leggende e teorie legate agli Unni e ai Longobardi. Le favole della capra che viene fulminata da una folgore o quella della capra che salta sul fuoco restandone illesa, le lascio ai bambini e credo, anzi, che siano delle ottime spiegazioni etimologiche da fornire al turista. Tuttavia, nell'ultimo decennio si è fatta strada una vecchia suggestiva ipotesi toponomastica che farebbe risalire la fondazione di Capracotta proprio al dominio longobardo e il nome di Capracotta al rito del caput capræ, che si svolgeva quando nasceva una comunità stabile in un luogo appena conquistato. Le avvisaglie di questa teoria sono ravvisabili in Luigi Campanelli quando scrive «d'una carnevalesca usanza dei Longobardi di sacrificare capre, o in linguaggio più povero ammazzarle, cuocerle e divorarle, lasciandone la testa per consacrarla al... Demonio!». Tale cerimonia si articolava in diversi momenti, dall'immolazione di una capra a un banchetto rituale che sfociava nell'adorazione della testa della bestia, fino all'accompagnamento di un'intonazione di canti sacri. Questa manifestazione era una delle più importanti del paganesimo germanico e veniva celebrata in onore di Thor, il dio che proteggeva gli uomini dai pericoli della natura, un dio straordinariamente forte che, per i suoi spostamenti, utilizzava un carro trainato da due capre sacre. Dato che i Longobardi conquistarono quasi interamente l'Italia tra il 568 e il 575, appare piuttosto strano che soltanto Capracotta abbia ottenuto quel nome. Di questa teoria, ben strutturata in seguito da altri studiosi locali, mi preme segnalarne quelle che a mio avviso sono due debolezze "narrative". Innanzitutto, l'ipotesi filolongobarda non spiega esaurientemente in quale modo caput si sia trasformato in coctus (i Longobardi speziavano esageratemente gli spiedi e non mangiavano carni semplicemente arrostite); in secondo luogo, essa non tiene conto dei profili comparativi con terze attestazioni, quali, ad esempio, il medaglione rinvenuto sull'isola di Amorgo, nell'arcipelago delle Cicladi, sul quale appare chiaramente «Caput Capræ cum collo, omnia intra lauream» (testa di capra con collo, il tutto nell'alloro): si tenga a mente che nel '600 a Capracotta ricorreva una leggenda secondo cui il toponimo originario fosse proprio Laurea Capra (capra in alloro). Il numismatico Domenico Sestini (1750-1832) credeva però che l'attribuzione di una medaglia col capo caprino sgozzato fosse la città greca di Ægiali, Amorgos, «a cui potrebbe spettare il tipo della testa di Capra». Inoltre, portare a supporto un parallelo germanico tra Capracotta e Gateshead - che, da Beda il Venerabile al dott. Stukely, deriverebbe da ad Capræ Caput - credo che non sia sostanzialmente ammissibile: lo sarebbe se il nostro paese si fosse chiamato Capocapra. L'ipotesi filolongobarda parrebbe dunque valida almeno per Gateshead (UK) se non fosse che il suo primo nucleo insediativo risale proprio all'età romana.

Insomma, tutto ciò lascia desumere che quello del caput capræ sia un lemma iconografico che precede di molti secoli le invasioni barbariche sulla penisola italica e, soprattutto, conferma la latinità della semantica caprina stessa. La testa di capra non è appannaggio dei Longobardi ma dei Greci, padri putativi di Roma, un popolo dedito da millenni all'allevamento caprino e che presenta numerosi toponimi riferibili alla capra, un animale che ricopre un grande valore simbolico nell'Ellade. Nella mitologia greca è infatti la capra Amaltea a nutrire Zeus che la madre aveva nascosto a Creta per sfuggire dal padre Crono che divorava la prole. Con una delle sue corna Zeus creò la cornucopia (il corno dell'abbondanza) e alla sua morte la eternò per sempre tra le stelle del Capricorno.

Quello del caput capræ è per me un ulteriore motivo per dichiarare che Capracotta sia stata fondata dai Romani al fine di tenere sotto controllo i collerici Sanniti, ormai vicarii di Roma - così venivano chiamati i nemici appena assoggettati, quindi sostituti del generale romano - e che il suo nome derivi da Capræ Cottæ, l'autoconsacrazione di tre capre per la gloria del console Gaio Cotta. Vi spiego ora perché.


La tomba della famiglia Cotta sull'Appia Antica.

Stiamo parlando di un momento turbolento nella storia di Roma, caratterizzato dalla Terza guerra sannitica, combattuta dal 298 al 290 a.C. contro i Sanniti in espansione in Lucania, e dalla conseguente fase di stabilizzazione. Nella mia ipotesi il processo fondativo di Capracotta - non in qualità di sparse capanne pastorali ma come luogo abitativo con una qualche organizzazione politica - comincia nel 293 a.C., quando i consoli Lucio Papirio Cursore e Spurio Carvilio Massimo conducono i rispettivi eserciti, su rotte parallele, verso il Sannio: in particolar modo, quello di Papirio Cursore muove dalla Campania settentrionale in direzione di Aquilonia. Il piano prevede di attaccare contemporaneamente e con la massima durezza. I combattimenti nella battaglia di Aquilonia sono durissimi e costano oltre 50.000 morti, ma a sera i comandanti romani entrano vittoriosi nelle sue rovine. Da qui, dove ha combattuto la Legio Linteata, alcuni superstiti si rifugiano a Bovianum, e non è da escludere che qualcuno di questi esuli abbia intrapreso la via delle montagne a settentrione, salendo fin sulla sella capracottese (il Campanelli per primo scrisse della «vaga reminiscenza di un Caio Cotta giovane romano esiliato al tempo della terza guerra sannitica»).

Arriviamo al 200 a.C., allorquando vengono inviati nel Sannio dieci uomini per lottizzare le terre requisite da Roma dopo l'ultima guerra sannitica. La commissione ripartitrice è costituita dai decemviri Publio, Caio e Marco Servilio, Quinto Cecilio Metello, Lucio e Aulo Ostilio Catone, Publio Villio Tappulo, Marco Fulvio Flacco, Publio Elio Peto e, per finire, Quinto Flaminio. Questi uomini si recano fisicamente in quella vasta area geografica ex dimora di Caraceni, Pentri, Caudini e Irpini, al confine coi Dauni. In quello stesso anno, Gaio Aurelio Cotta, pretore urbano dal 202 a.C., superata la soglia dei quarant'anni d'età, è eletto secondo console di Roma assieme a Publio Sulpicio Galba Massimo. Come provincia gli viene affidata l'Italia, col compito di combattere contro Boi, Insubri e Cenomani, che, sotto il comando di Amilcare, hanno invaso il territorio romano. Il comando viene gestito direttamente dal pretore Lucio Furio Purpureo, che alla fine sarà onorato col trionfo. Cotta, rimasto offeso per non aver ricevuto alcun riconoscimento ufficiale, si darà invece al saccheggio e alla devastazione del territorio nemico, così da guadagnar beni materiali invece della fama.

È ora il momento di collegare tutti gli elementi fin qui raccolti: lo farò attraverso il rito romano della devotio hostium. A mio avviso, è questo il cerimoniale che spiega la fondazione romana di Capracotta, avvenuta relativamente tardi rispetto alla vittoria sui Sanniti, probabilmente per via dell'altitudine e dei bellicosi esuli lì nascosti. La fondazione avviene in quella multivalente congiuntura che si pone tra l'arrivo di Publio Villio Tappulo in Alto Molise e la nomina a secondo console di Gaio Aurelio Cotta.

Soltanto a partire dal 249 a.C., non appena un territorio veniva requisito dai Romani, era prassi consolidata praticare un rito di devotio hostium, che, a differenza della devotio ducis - in cui il comandante militare si immolava -, «aveva luogo dopo la conquista di una città nemica, solitamente dopo la celebrazione di un'evocatio: alla distruzione "religiosa" della città ne seguiva dunque l'annientamento fisico [anche se] una città privata dei suoi dèi non sempre veniva distrutta». Nei casi di centri molto piccoli, si celebravano altrettanto piccole devotiones. Il rito si svolgeva col sacrificio di tre pecore nere e, quanto agli dèi, «preponderante è la presenza di divinità ctonie quali Dite, Veiove, i Mani e la Terra; l'eccezione è costituita da Giove, che fa la sua comparsa principalmente, è da presumere, in quanto supremo garante dei patti».

Aurelia Cotta, madre di Giulio Cesare.

Giorgio Ferri, uno degli studiosi più preparati sui riti di devotio, conferma che grande importanza avevano «le azioni espiatorie se il devotus fosse sopravvissuto», il che mi fa pensare che gli ovini non dovessero venir consacrati solo per inglobare nel pantheon romano la religione sannitica - e così lasciare senza protezione divina i nemici - ma anche per glorificare un devotus che non aveva ancora ricevuto il giusto tributo dalla capitale repubblicana. Difatti, «il riferimento alla terra traspare anche in senso traslato nel cognomen dei singoli generali che praticarono la devotio». Siccome sul nostro territorio non vi sono pecore nere, probabilmente furono scelte tre capre, mentre il devotus, per interposta persona, non poteva che essere Gaio Cotta, il quale, come hanno segnalato i maggiori studiosi di storia romana, era stato deliberatamente trascurato dalle élite di Roma e relegato a un ruolo minore rispetto al suo prefetto Furio Purpureo, e forse era da poco stato ucciso nelle razzie in Italia settentrionale. I casi più eclatanti di devotio che han dato vita a toponimi sono Beneventum (Benevento), Fregellæ (Ceprano, in onore di Quinto Ovio Fregellano) ed, esempio a noi vicinissimo e illuminante, Carvilius (i nostri Montetti di Carovilli, per la gloria di Spurio Carvilio Massimo).

In articoli successivi cercherò di rinforzare la struttura della mia ipotesi, che ad oggi presenta, su tutte, due fragilità: la prima è certificare un'affinità politica tra il ripartitore Publio Villio Tappulo e il console Gaio Aurelio Cotta, poiché sappiamo che nel 199 a.C. il Tappulo sostituì il Galba, "collega" del Cotta, nel seggio consolare e che quindi è possibile che tra i due vi sia stata una sorta di intercessio. La seconda debolezza della mia ipotesi risiede nella scarsissima presenza di vestigia romane sul suolo capracottese, ma non su quello altomolisano, come il teatro di Pietrabbondante, il santuario di Vastogirardi, la villa di S. Lorenzo ad Agnone e la strada romana e il santuario di S. Pietro Avellana. Ciononostante, la carenza di tracce romane potrebbe essere spiegata dallo stesso atto fondativo di Capracotta, il quale potrebbe aver rappresentato un gesto meramente evocativo: scannando capre in nome del console, sul luogo più elevato dell'ager publicus Samnitium, Roma sembra che abbia voluto zittire qualsiasi aspirazione e rivendicazione futura di quei popoli. A conferma di ciò sta la Tavola Osca, risalente al 250 a.C., prova inconfutabile della persistenza osco-sannita sulle vette del Molise, il che fa pensare che, nonostante il territorio fosse già pacificato, i temibili Sanniti continuavano a resistere, rendendo perciò necessario un ulteriore e definitivo gesto dei Romani. Non escludo infine che la mia ipotesi possa riferirsi a un altro Gaio Cotta, vissuto mezzo secolo prima ed eletto console nel 252 a.C., ma che non ebbe alcun coinvolgimento politico evidente nella quæstio Samnitica.

Insomma, negli intenti del commissario Publio Tappulo, il rito apotropaico di Capracotta rappresentò forse un gesto politicamente simbolico e un tributo nei confronti del console Gaio Cotta. Con mire romanzesche, mi piace credere che, sulle nostre alture tempestose, al momento dello sgozzamento, i presenti abbiano alzato gli occhi al cielo gridando il seguente carme evocativo:


Giove, facendoti questa offerta,

ascolta le preghiere dei cittadini

e caccia i nemici dai confini della patria!

Queste sono le capre di Cotta!


Francesco Mendozzi

 

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