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L'abito professionale e l'abito urbano


Il costume tradizionale dell'uomo e della donna di Capracotta.

Nelle multiformi stratificazioni di cui è costituita la cultura popolare è possibile individuare alcuni gruppi che, almeno fino all'inizio del nostro secolo, indossavano abiti specifici e correlati alla propria attività lavorativa. Più che della sottile indagine di Bogatyrëv (sull'uso del costume antico, o di determinati colori, da parte di alcuni gruppi professionali, come ad esempio i mugnai), si intende qui fare uso di distinzioni più grossolane, data la scarsità di studi sull'argomento per quel che riguarda l'area italiana. Il collegamento tra abito e mestiere è infatti duplice: da un lato si parla di elementi di abito direttamente funzionali allo svolgimento dell'attività lavorativa, ed eventualmente indossati solo o prevalentemente durante il lavoro; dall'altro possono costituirsi complessi di abbigliamento non direttamente funzionali, o non più tali, ma volti a costruire anche attraverso l'abito una identità specificamente collegata al mestiere. Tra l'uno e l'altro fatto esistono ovviamente situazioni intermedie, soprattutto per quello che riguarda quegli elementi di abito in origine funzionali al mestiere ed in seguito indossati esclusivamente come segno di identità professionale. Particolarmente interessante quindi, in questa linea di indagine, può essere l'abbigliamento di quei gruppi che si trovano in una condizione strutturalmente diversa da quella contadina, come ad esempio gli artigiani, o dei gruppi mobili, che, pur appartenendo alla cultura popolare di etnia italiana, si collocano in una condizione di opposizione rispetto ai gruppi stanziali agricoli, secondo l'antica opposizione tra mobilità e stanzialità.

Alcune indicazioni nella letteratura sull'abbigliamento popolare italiano forniscono notizie sull'abito degli artigiani, segno della relativa agiatezza degli artigiani professionali e della particolare posizione da essi occupata all'interno della cultura popolare. Già nelle classi agiate coloro che rappresentavano cariche pubbliche o esercitavano alcune professioni liberali indossavano abiti di particolari colori, come i medici dei secoli XIV-XV-XVI, a Firenze, vestiti prevalentemente di nero o di rosso, o i lettori dell'università di Bologna nel Rinascimento, che si distinguevano per facoltà attraverso i colori dei loro abiti, nero, viola o porpora; nel secolo XVII, in Umbria, i medici erano vestiti con mantelli di colore paonazzo (un colore intermedio tra il viola e il blu); nel XVIII secolo professori d'università, medici e avvocati cominciarono ad usare questi colori solo durante l'esercizio della loro attività. Così nella cultura popolare, sin dal secolo XII, possono individuarsi alcune caratteristiche dell'abbigliamento degli artigiani, come quello degli arrotini nel secolo XII; dei falegnami e muratori nel secolo XIII; dei mugnai nel secolo XV.

Diversa indagine richiedono gli abiti o gli elementi dell'abito direttamente funzionali al lavoro artigiano e solo per esso indossati: i bianchi vestiti di mugnai e panettieri; i camiciotti dei fabbri; i grembiuli di cuoio dei calzolai, le uniformi azzurre dei ferrovieri, i grembiuli di alona dei barilai messinesi, i camiciotti bianchi degli imbianchini genovesi. Accanto alla funzionalità pratica di questi abiti, ovviamente primaria, si possono leggere elementi simbolici di identificazione con il proprio lavoro e con la materia lavorata e trasformata attraverso di esso (il colore bianco in rapporto alla farina ed alla pasta, il cuoio in rapporto con il cuoio da lavorare, eccetera), come se al mimetismo utilitario si aggiungesse un mimetismo simbolico; estremo esempio di mimetismo con la materia è il caso dei rematori veneziani del secolo XVIII, che nelle battute di pesca per i signori veneziani indossavano abiti verdeazzurri allo scopo di non spaventare la preda. Nell'area settentrionale il blu e l'azzurro erano usati in abiti di lavoro: i pantaloni di velluto blu, usati largamente oltre confine, erano stati importati dalla Savoia nel Piemonte dagli operai frontalieri; i facchini genovesi della dogana e porto franco usavano un corto gonnellino di cotone blu; il grembiule blu e ancora usato dai contadini nell'area atesina; azzurre erano le antiche divise dei ferrovieri, ecc.

Anche i contadini sardi avevano, insieme all'abito usato quotidianamente per il lavoro, abiti direttamente funzionali ad alcuni tipi di lavori agricoli: i peddis o pannus de anànti, grembiuli di cuoio o di panno, venivano usati in numerose occasioni di lavoro, mentre mezze maniche (mangittus) venivano usate particolarmente per la mietitura, insieme a ditali di cuoio o canna, per proteggere le mani e le braccia dal logorio e da eventuali colpi di falce.

Tra i più conosciuti abiti professionali è da considerarsi l'abbigliamento dei pastori, che nella versione usata per il lavoro era molto simile in tutta l'area continentale italiana, con le eccezioni significative della Sardegna e dell'arco alpino. Questo abbigliamento era caratterizzato dalla effettiva e persistente funzionalità dei suoi elementi, e da una stretta correlazione con l'attivita esercitata. I pastori, di ovini o di bovini, facevano uso di abiti di pelle di animale (giacche, guardamacchia, fasce per gambe) o di stoffa (mantelli) per proteggersi rispettivamente dal freddo o dal vento durante la transumanza e le ore passate all'aperto; si usava il materiale più immediatamente disponibile, cioè la pelle degli animali allevati. L'abito costituito per la maggior parte di pelle animale rappresenta una scelta che investe la sfera tecnologica ed economica, e insieme un elemento simbolico di identificazione con quegli animali che sono la principale cura e fonte di sussistenza. I pastori coperti di pelli si vestivano, per così dire, da bestie, e non in funzione autodenigratoria, ma con la fierezza della propria condizione che è tipica delle società pastorali. A Capracotta (IS) il pastore Giacomo Venditti ha descritto l'abito che indossava da pastore, nella sua giovinezza, come un abito decorato e portato con orgoglio: la giacca di pelle di pecora (pelliccione) era tutta ornata di bottoni di vari colori e di pezzi di pelle marocchino, policroma.

L'abbigliamento in cuoio conserva infatti ancora oggi un suo carattere di aggressività, legato com'era, in origine, alle culture degli allevatori e soprattutto dei cacciatori; l'abbigliamento in cuoio ha contraddistinto alcune categorie di "duri" o presunti tali, tassisti, camionisti, motociclisti, punk, blousons noir degli anni '50, figure legate in qualche modo alla strada e ad un reale o preteso nomadismo. Nelle sue versioni più "nere", l'abbigliamento in cuoio diviene l'emblema dei bracci armati delle dittature (nazisti, fascisti), o dei riti e comportamenti sessuali della componente sadomasochista.

Altri gruppi professionali legati alla cura e allevamento di animali, come i massari, o i guardiani delle grandi aziende agricole in Calabria, vestivano abiti di foggia brigantesca, e indossavano cappelli decorati con spilli dalle capocchie lucenti; questo modo di apporre abbondantemente spilli, o bottoni policromi, o spille con segni vari, documentato presso gli antichi guardiani delle aziende calabresi, presso i pastori del Molise descritti più sopra, e oggi negli abiti dei giovani mafiosi calabresi, in occasioni cerimoniali come pellegrinaggi a santuari, si ricollega almeno in apparenza alla distribuzione dei gradi e delle medaglie nelle divise militari, ed e certamente segno di una fierezza e di una valentia, pacifica o no, individuale o di gruppo.

La specificità dell'abito pastorale sembra mantenersi anche nell'evolversi di alcuni elementi dell'abito; sempre a Capracotta, nel corso dei primi decenni del secolo XX era usato dai pastori un particolare tipo di pantaloni, con la cinta alta, tutti foderati di lana, non assimilati agli altri abiti. L'abito dei pastori di Capracotta nel secolo XX era indossato dai carbonai; questi costituiscono infatti un altro gruppo mobile rispetto alla comunità contadina stanziale.

Per gli abiti dei pastori di altre regioni possono citarsi gli abiti di tipo greco di alcuni gruppi di pastori calabresi; gli abiti dei bergamini, pastori di bovini transumanti dell'area bergamasca, che usavano mantelli funzionali al riparo dal freddo notturno, e simili a quelli dei pastori dell'Italia centromeridionale, e che indossavano un abito particolare con pantaloni corti al ginocchio, ghette, cappello rotondo scuro; gli abiti dei pastori della campagna romana; gli abiti dei pastori siciliani.

I gruppi mobili si distinguono all'interno del mondo popolare anche attraverso il vestiario. Cosi i carrettieri ed i mediatori, nella Val Leogra, portavano come segno distintivo un fazzoletto al collo; i carrettieri canavesani indossavano un berrettone a sacco di maglia rosa e nera. Si distinguevano, anche attraverso l'abito, i Kramari (merciai ambulanti) della Carnia, e gli spazzacamini valdostani. Gli abiti dei venditori e lavoratori ambulanti aprono prospettive alla problematica dell'abito urbano, per via dei numerosi contatti con la cultura popolare urbana, e gli elementi culturali assorbiti attraverso i continui spostamenti.

L'abito popolare urbano presenta, infatti, numerosi e cospicui motivi di interesse, anche se è stato finora poco studiato. Solo alcuni abiti indossati nell'ambito delle classi popolari sono abbastanza conosciuti, in genere a causa di alcune caratteristiche particolari, e in qualche modo assimilati al costume delle campagne: si vedano ad esempio per il secolo XIX l'abito delle donne genovesi, caratterizzato dal noto mezaro, l'abito delle donne veneziane, con scialle triangolare, o l'abito delle minenti romane. Un'altra tipologia di abito urbano è costituita dall'abbigliamento dei venditori ambulanti delle città; i loro abiti tuttavia possono essere studiati solo indirettamente, attraverso le immagini fotografiche, gli acquerelli, le tempere, le stampe del secolo XIX. Le descrizioni relative all'attività dei venditori ambulanti non prestano sempre la dovuta attenzione all'abito, ma piuttosto al tipo di commercio esercitato, o alle grida. Tra le classiche descrizioni possono citarsi quelle del Pitré, che in molti casi si dimostra attento all'abito di venditrici di uova, di mestolaie, di venditori di scope, di venditori di terracotte, di acconciategami, di venditrici di cesti e ventagli; questi abiti non si distinguono da quelli usati comunemente nelle classi popolari urbane, tranne nel caso dei venditori di verdure, e di pesce, che presentano un abbigliamento diversificato perché si tratta, rispettivamente, di contadini e pescatori. Alcuni abiti di venditori ambulanti sono direttamente funzionali al tipo di attività esercitata, come i camiciotti o grembiuli dei sorbettieri di Napoli, o il lungo pastrano dei caffettieri ambulanti di Napoli o siciliani, che ricordano in un certo modo le divise di lavoro usate dagli operai nelle fabbriche.

Altri abiti urbani, desunti dal già citato repertorio di stampe e di descrizioni ottocentesche, che indulgono sovente al pittoresco, sembrano costituire una rielaborazione popolare di modelli di abbigliamento propri di altri ambiti o gruppi sociali; oltre al caffettiere ambulante, che come si è già detto veste un abito di tipo operaio, possono citarsi l'abito delle guide (dette "Ciceroni") alle solfatare di Pozzuoli, che appare simile ad una divisa civile, e l'abito del contastorie, che particolarmente nell'area di Napoli ha avuto importanti ed accurate descrizioni. I contastorie napoletani declamavano ad alta voce, leggendole, storie epico-cavalleresche, incentrate soprattutto sul ciclo carolingio; essi erano infatti chiamati Rinaldi dal nome del più famoso ed amato dei paladini cristiani, e lavoravano soprattutto sul molo del porto, dinanzi ad un pubblico costituito prevalentemente di pescatori; dalle descrizioni di Pio Rajna, del 1878, l'abbigliamento dei contastorie appare assimilato ad un abito borghese di tipo elegante ma in disuso, prevalentemente nero, con giacca, panciotto, pantaloni, cappello di paglia o berretto nero, e in un caso orecchini ad anello alle orecchie. Nelle stampe ottocentesche e nel volume di De Bourcard, del 1853, documenti più antichi del testo di Rajna ma come si è detto in maggiore misura volti al pittoresco, l'abbigliamento del contastorie napoletano appare visibilmente di tipo antiquato: cappello, frac a lunghe code, occhiali, due fazzoletti, uno bianco e l'altro colorato, pantaloni, scarpe, panciotto, cravatta fuori moda; da questo abbigliamento viene distinto quello dei contastorie che narravano cantando (e non leggendo) storie di miracoli o storie lacrimevoli; questi lavoravano in varie piazze della città, o davanti all'edificio della dogana, e indossavano una giacca lunga, talvolta bianca come quella dei cuochi. L'abito del contastorie riflette ed amplifica lo status sociale di questo artista nella cultura popolare urbana, particolarmente di Napoli; nel suo abito nero, e particolarmente nel frac a code, il contastorie ha dell'attore (si pensi all'utilizzazione dello stesso genere di abito un secolo più tardi, da parte di Totò e di Charlot, forse attraverso la mediazione dell'abbigliamento del clown circense Leale), e dell'intellettuale, magari definito nella cultura popolare il "professore"; l'unione di teatralità e intellettualità richiama immediatamente un altro protagonista degli spettacoli di piazza, il ciarlatano, il cui abbigliamento nei secoli più recenti sembra presentare alcune analogie con quello qui descritto del contastorie.

Non possono evitarsi, in questa sede, anche alcuni accenni all'abito degli operai. Nella fine analisi di Aris Accornero, viene individuato un passaggio dalla dicotomia abito da lavoro/abito della festa, nella quale era implicito che non esistevano differenze tra l'abito usato durante lo svolgersi di un lavoro e l'abito per recarsi al lavoro; in seguito, con l'introduzione nelle fabbriche degli abiti da lavoro e poi delle tute blu, cambiano lentamente anche le caratteristiche dell'abito per recarsi al lavoro, e quelle dell'abito da festa, in via di sparizione. In una prima fase quindi l'introduzione dell'abito da lavoro nelle fabbriche sembra essere una prerogativa delle categorie di operai più qualificate, tant'è vero che gli operai meno qualificati, muratori, cavatori, scalpellini, allo stesso modo dei braccianti, scrive Accornero, non indossano specifici abiti da lavoro; la divisa di lavoro è un segno positivo di status all'interno della cultura popolare; in seguito, invece, la progressiva attuale tendenza alla sparizione delle divise da lavoro sembra qualificarle negativamente. Nel testo di Accornero vengono analizzate le diverse funzioni degli abiti da lavoro in fabbrica, con le differenze che sottolineano le diverse gerarchie di operai all'interno dell'azienda, e che definiscono la tuta o la divisa di lavoro segno dei lavori più umili, con i quali ci si insozza maggiormente; la tuta diviene poi un emblema della condizione proletaria, e viene indossata con fierezza nelle manifestazioni di piazza dagli anni '60-'70.

Un abito che indicava una condizione professionale, sia nelle città che nelle campagne, è, infine, quello delle nutrici; si e già citato l'esempio delle balie e delle domestiche originarie della Brianza, che lavoravano a Milano e che indossavano il costume brianzolo; nell'area siciliana le balie vestivano di nero, o invece, nell'uscire fuori dalle case dove prestavano servizio, indossavano un costume ben curato e piacevole a vedersi:

La nutrice fuori di casa è come un oggetto di lusso per la famiglia che la tiene: e percià va vestita con un certo costume non ordinario per altre donne della sua condizione, un costume attraente.

È possibile forse riflettere sul duplice significato di questo tipo di abito delle nutrici; da un lato, c'e il riconoscimento di una identità e di una origine diverse da quella dei signori di città che le danno lavoro; identità ed origine che vanno rispettate, anche perché sono la garanzia della qualità del servizio prestato (nell'implicita equazione campagna-salute-buona qualità del latte); dall'altro, la diversità espressa nel costume viene in qualche modo asservita, attraverso la cura della confezione e l'eleganza, alle esigenze di prestigio delle classi borghesi e aristocratiche urbane; e forse anche da considerare che le balie avevano una condizione ed un ruolo privilegiati nei confronti delle comuni domestiche.


Elisabetta Silvestrini

 

Fonte: E. Silvestrini, L'abito popolare italiano, in «La Ricerca Folklorica», VII:14, Grafo, Brescia, ottobre 1986.

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