Rivediamo il film di una vita: Marco Potena
- Letteratura Capracottese
- 21 lug
- Tempo di lettura: 6 min

Milano.
Ad un certo punto smette di parlare, guarda oltre i vetri della sua casa in via Vincenzo Monti, assorto. «Ma guarda cosa mi fa ricordare», sussurra. Il signor Marco Potena, nato a Capracotta il 2 marzo 1925, di professione imprenditore (la Comaver è un'impresa di manutenzioni industriali con un'ottantina di dipendenti), sposato da quattro anni con Sara, una bella signora scozzese, stava ricordando una lontana giornata del 1943, quando, a piedi nudi sulla neve, è corso a salvare un centinaio di agnellini chiusi in una masseria di Capracotta durante un bombardamento a tappeto. «Ho fatto in tempo a farli uscire prima che il tetto saltasse per aria. Ne ho salvati una cinquantina».
Il volto è abbronzato, gli occhi chiari si illuminano ogni volta che qualche flash back risorge dagli anni a riportarlo indietro, quando era uno scavezzacollo pieno di forza e di candore, capace delle cose più incredibili pur di saziare la sua voglia di neve.
Cominciamo dall'inizio. Il "ciak, si gira" lo dà la memoria, compagna di cose belle e brutte. L'azione si svolge a Capracotta. Il paese è sullo spartiacque appenninico molisano. Nelle giornate terse, da una aprte si vede l'Adriatico, dall'altra il Tirreno. In paese i cinquemile abitanti diventano la metà in inverno. Scappano a svernare i pastori e i boscaioli, i carbonai scendono a valle dove bruciano le cataste di legno per ricavarne torba. Rimangono soltanto i pochi notabili, qualche professionista e gli artigiani. Uno di questi è Domenico Potena, di professione ramaio. Mette al mondo tre maschi e una femmina. Il primo dei maschi è Marco.
Domanda: – Che tipo era suo padre?
Risposta: – Gli piaceva moltissimo la montagna e la neve anche se non ha mai messo un paio di sci.
D: – Ma chi ha portato gli sci a Capracotta?
R: – Il maestro Paglione, nel 1914. Era stato per un viaggio di studi nel nord Europa e aveva visto usare sulla neve questi due assi. Ci sono in giro ancora delle foto di lui, il maestro di tutti i bambini di Capracotta, che posa con i due sci e l'unico bastone che si usava a quei tempi.
D: – E i suoi primi sci?
R: – Venivano ritagliati dai nostri falegnami dal tronco del faggio, con la curva della sparola già sagomata. I primi li ho messi che avevo tre anni, con le cinghie di cuoio a far da attacchi. Ho continuato a sciare soltanto fondo naturalmente, fino alla guerra quando i tedeschi hanno fatto "terra bruciata" a Capracotta e il paese si è spopolato, seminando i suoi abitanti in giro per l'Italia.
D: – E la famiglia Potena?
R: – Mio padre ci aveva trasferiti a Napoli già nel '35. Fu lì che quattro anni dopo conobbi il gioielliere Gianni Rumiz, un ricco napoletano appassionato di sci. Quando seppe che ero di Capracotta mi portò subito alla Gioventù Italiana del Littorio. Per noi era un periodo di tempi grami e a me non pareva vero di fare gli allenamenti collegiali a Selva di Valgardena e a Cortina. Insieme all'élite della nobiltà partenopea c'ero anch'io, un ragazzo di Capracotta con le pezze sul sedere.
D: – Le prime gare?
R: – Per tutta la guerra naturalmente non se ne è parlato. Abbiamo ripreso a sciare seriamente subito dopo, con i militari americani di stanza a Napoli. Usavamo un carro da guerra a sei ruote per andare a Roccaraso. Ci mettevamo cinque ore per arrivarci. Coprivamo il carro con un telone e facevamo delle panche di legno per sederci. Cose dell'altro mondo...
D: – E poi?
R: – Nel '49 a Madonna di Campiglio c'erano i campionati universitari. La mattina ho fatto la gara di fondo, 15 chilometri. Verso la metà mi si sono rotti gli sci. Incontro il "Piro" Pirovano che era in gara con me. Io ero arrabbiatissimo. Lui si è fermato molto sportivamente e mi ha portato in una casetta dove abbiamo inchiodato le parti rotte dello sci, almeno per finire la gara. Nel primo pomeriggio abbiamo provato la discesa libera sullo Spinale. Ho fatto una caduta paurosa e ho rotto gli sci. Verso sera c'era il salto per la combinata. Non avevo mai saltato in vita mia. E ho rotto gli sci. Tre paia di sci rotti in un giorno solo. L'accompagnatore era disperato.
D: – Chi era?
R: – L'ennesimo nobile partenopeo, Giustiniano Incarnati.
D: – Ma oltre a sciare lavorava o no?
R: – Già nel '43 mi ero impiegato come disegnatore ai cantieri navali di Castellamare. Poi nel '50 sono passato alla raffineria Mobiloil di Napoli.
D: – Aveva anche imparato a fare discesa...
R: – Allo Stelvio con Gino Seghi, il fratello di Celina. La discesa libera era fatta per me, l'adoravo. Da giovane avevo un coraggio da leone, la forza e il peso giusto per fare la libera. Di solito quando non cadevo vincevo.
D: – È accaduto spesso?
R: – Dal '53 al '59 non ricordo nemmeno quanti campionati zonali ho vinto.
D: – E di campionati italiani?
R: – Beh, quelli mai, però ho fatto dei numeri.
D: – Ad esempio?
R: – A Cortina, campionati italiani assoluti del 1953. Non avevo soldi. Contavo di piazzarmi abbastanza bene per avere diritto ai rimborsi spese. Ma sulla Stratofana in discesa libera ho fatto una caduta bestiale. Il gigante non era andato meglio. Restava il salto dal trampolino dello Zuel. Il regolamento diceva che a chi partecipasse alla gara di salto il rimborso spese spettava di diritto. Ho fatto il salto. Ma quello non era il trampolino di Capracotta o di Campiglio. Era lungo 90 metri.
D: – Naturalmente non aveva mai provato...
R: – Mai. Ma dovevo pur tornare a Napoli. Devo ammettere che mi tremavano un po' le gambe. Mi ero fatto prestare un paio di sci da salto da un falegname cortinese. Salendo il trampolino avevo incontrato un saltatore di allore, Nicolaucich. «Fai pipì – mi disse – vedrai che la paura passa». Io eseguii volentieri ma la fifa rimase sempre blu. Comunque mi sono buttato. 48 metri ho saltato. Sono atterrato... in qualche maniera. Ero praticamente una spelatura ambulante, il sangue delle ferite si raggrumava subito per il freddo. Ma il primo salto era valido.
D: – Perché, ne doveva fare un altro?
R: – Per forza. C'erano cinquemila persone a vedermi. Quando annunciarono: per la seconda volta «Salta Marco Potena di Capracotta» ci fu un'ovazione. Non credevano che ci avrei riprovato. Sepp Bräd, il direttore agonistico degli azzurri voleva impedirmelo. Ma il pagamento delle spese d'albergo e il viaggio di treno in terza classe erano troppo importanti per me. Altro salto, altra caduta, altra botta. Ma in fondo ero contento...
D: – Si dice anche che lei abbia fatto una staffetta di fondo da solo. È vero?
R: – Beh, non proprio. Feci la prima e la terza frazione, due anni dopo Cortina ai campionati universitari, a Sestola. Mancava un frazionista e allora, sotto falso nome ho corso io.
D: – Inutile chiederle se scia ancora...
R: – Appena arrivato a Milano, nel '59, ho cercato un punto di appoggio sulla neve e ho comperato un appartamento a Cervinia. Quattro anni fa ho subito un bruttissimo incidente stradale. Mi hanno rimesso insieme tutto il bacino e mi avevano detto che non c'era più niente da fare con lo sci. Siamo matti? Mi sono trattenuto per un paio di stagioni, ho fatto molto nuoto, a Positano, poi molto fondo e adesso, appena posso, scappo a Cervinia a sciare.
D: – E a Capracotta non torna più?
R: – Certo che ci torno, quando il lavoro me lo consente. Anche lì ho una casa. Quando la giornata è bella è un posto meraviglioso, si vedono sette provincie, si vede il Vesuvio, si vede persino la costa dalmata.
Marco Potena ha concluso il replay della sua vita. L'ultimo fotogramma è forse il più bello, il matrimonio con Sara quattro anni fa. L'ha conosciuta nel '61 sulle piste di Cervinia, un "fidanzamento" e quasi vent'anni prima di poter finalmente stare insieme. «Io cerco di tenerlo a freno – dice la signora Potena – ma... purtroppo piace anche a me sciare». È decisamente un film a lieto fine. E, dopo aver conosciuto il personaggio, non è difficile pensare a qualche riedizione.
Roberto Della Torre
Fonte: R. Della Torre, Amarcord. Rivediamo il film di una vita. Personaggio ed interprete: Marco Potena, in «Sciare», XVII:225-226, 1° marzo 1981.