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Angel Island



Ogniqualvolta mi capitava di parlare con amici o conoscenti romani del mio ultimo viaggio a San Francisco, ove viveva mio figlio Vittorio con la moglie Katie e con i figli Lilly e James, il loro immancabile commento riguardava il fascino del tutto particolare di quella città californiana, che la distingueva, secondo loro, da tutte le altre città degli Stati Uniti e la rendeva la più simile a quelle europee.

L'osservazione, comune a tutti, che voleva essere un complimento per la bella vacanza trascorsa, ma che sottintendeva anche un più sottile e malizioso giudizio negativo sull'America in generale, non era naturalmente suffragata da nessuna esperienza diretta della vita del "nuovo mondo".

Nel migliore dei casi, si basava su un unico viaggio compiuto dall'interlocutore a New York o a Los Angeles, o addirittura su uno scontatissimo viaggio di nozze a Cuba, la patria del castrismo internazionale.

A me risultava, ad ogni modo, del tutto priva di fondamento.

Niente mi sembrava, infatti, che potesse giustificare un giudizio tanto superficiale, da distinguere nettamente San Francisco da Chicago e Detroit, ma anche da Boston e Sacramento.

Secondo la mia esperienza, pur tenendo conto delle ovvie differenze, erano più numerose e importanti le caratteristiche che univano le città americane di quelle che pur distinguevano le grandi metropoli di New York e di Los Angeles da quelle di provincia come Reno e Carson City. Ciò valeva anche nel confronto delle città industriali come Chicago e Detroit con quelle a economia agricola e commerciale come Sacramento, dei centri dell'alta cultura e dell'innovazione, quali San Francisco e Boston, con quelli del gioco e del divertimento, quali Las Vegas e Disneyland, dei centri del Nord con quelli del Sud, di quelli delle due coste con quelli delle pianure centrali e delle zone montuose.

Dappertutto io avevo avvertito l'orgoglio degli abitanti di sentirsi americani, il piacere del proprio stile di vita, la generosità e la solidarietà delle persone, il rispetto per l'ordine e per le regole del vivere civile, la pulizia delle strade e la cura dei giardini, il modo di funzionare e la precisione dei servizi pubblici e di quelli privati, la vastità degli spazi e il silenzio della notte, la varietà, fin dentro i centri abitati, degli uccelli e degli animali selvatici, l'integrazione delle razze occidentali, asiatiche e africane, i moderni grattacieli accanto alle abitazioni di legno.

Comuni a tutti i centri urbani erano i supermercati e i grandi centri commerciali, che sostituivano quasi completamente i piccoli esercizi, negozi e mercatini rionali. Dappertutto risuonavano il jazz, il rock, il folk, il country, lo spiritual e il gospel.

Ovunque i grossi pick up avevano sostituito il primitivo calesse, le moderne villette di legno continuato la tradizione del forte e del ranch dei tempi della conquista del West, i grandi autocarri con o senza rimorchio preso il posto delle vecchie carovane.

Alle vie carovaniere erano subentrate le larghe autostrade, per lo più gratuite, direttamente accessibili dai centri cittadini e libere dai caselli di blocco. Le linee ferroviarie avevano ceduto il primato al traffico aereo.

Quasi nulla di tutto questo era proprio delle città europee.

Spontaneo in me sorgeva il confronto con la vita di Roma, la città in cui vivevo, rumorosa e caotica, con lo stile di guida degli automobilisti, le automobili parcheggiate ovunque, quasi come se l'intera città fosse un immenso garage.

Quivi dominava l'angustia degli spazi, il brulicare della gente specialmente intorno al Colosseo, alla Fontana di Trevi, a piazza San Pietro o nei quartieri tradizionali di Borgo Santo Spirito, di Trastevere, di San Lorenzo e del Ghetto ebraico.

Dappertutto sorgevano monumenti e antichi resti storici. Rare erano le specie di uccelli nei parchi e del tutto assenti gli scoiattoli e i caprioli, per non parlare dei leoni marini, dei falchi e dei tacchini selvatici. Pressoché spariti erano anche i tradizionali gatti di Roma!

Nessuna presenza di razze straniere era paragonabile alla China Town di San Francisco o alla comunità di messicani presente, numerosissima e perfettamente integrata in tutta la California.

Ciononostante, quel pregiudizio tanto diffuso fra gli amici e i conoscenti romani doveva pur avere qualche fondamento, che io mi sforzavo ogni volta di scoprire.

Nel mio quarto o quinto soggiorno a San Francisco (non ricordo esattamente) accadde un episodio illuminante, che in qualche modo spiegò quel luogo comune, per me ancora oscuro.

Dopo aver visitato, mia moglie ed io, nei precedenti soggiorni, quasi tutto quanto era possibile vedere, almeno dall'esterno, in San Francisco e nei dintorni, avevamo deciso di compiere una gita panoramica nella vicina Angel Island, situata all'interno della baia.

Saliti di buon'ora sul traghetto che partiva da Tiburon, eravamo sbarcati, dopo alcuni minuti, nella piccola radura dell'isola, destinata all'approdo. In un apposito piazzale era situata la costruzione in legno adibita a centro visitatori. Quivi era anche il botteghino per la vendita dei biglietti e la distribuzione dell'attrezzatura necessaria ai diversi tipi di escursione: a piedi, in bike, in mountain scooter elettrico, in tram. A poca distanza era visibile un tratto di costa sabbiosa, dove alcuni turisti erano sdraiati al sole.

La scarsa padronanza della lingua inglese mia e di mia moglie provocò un equivoco nell'acquisto dei biglietti. Invece di quelli per il tour in tram, che noi intendevamo chiedere, ci furono consegnati dei biglietti per il noleggio di due mountain scooter.

Ce ne accorgemmo quando ci offrirono un casco da indossare per sicurezza e ci fecero firmare una dichiarazione che eravamo capaci di pilotare senza assistenza il mezzo di trasporto a due ruote. Francamente, anche il costo eccessivo di sessanta dollari da noi pagato per ogni biglietto ci aveva lasciati dubbiosi.

I chiarimenti necessari a sciogliere l'equivoco occorso ci fecero perdere tempo, pazienza e anche il tram dell'unico tour giornaliero.

Della nostra reazione piuttosto stizzita si era accorto l'autista di un pullman privato, destinato a un giro turistico di una comitiva di persone anziane, che aveva assistito alla discussione.

Con qualche esitazione ma con grande affabilità e cortesia quell'uomo si avvicinò a noi e chiese, in un italiano stentato e imperfetto, se eravamo italiani.

Alla nostra risposta affermativa ci confidò di avere anche lui origini italiane, perché suo nonno materno era immigrato prima della grande crisi del 1929 dal Molise, esattamente dal paese di Capracotta a San Francisco, negli Stati Uniti d'America.

Aggiunse che questo suo avo aveva tentato di insegnare, a lui ancora bambino, a parlare italiano, ma inutilmente.

Dopo lunga fatica, definitivamente scoraggiato, aveva preso gusto a ripetere, in ogni occasione:

– Tu testa dura, troppo dura per imparare italiano!

Dopo aver simpatizzato con queste poche battute e aver appreso che io ero nato in Abruzzo, che all'epoca di suo nonno formava un'unica regione con il Molise, il nostro compaesano ci chiese se volevamo approfittare gratuitamente di due posti liberi sul suo pullman privato, che, ancora vuoto, sostava in attesa dell'arrivo della comitiva che lo aveva noleggiato.

Naturalmente noi accettammo la generosa offerta con grande sollievo e quel signore ci fece sistemare in prima fila, sui due sedili dai quali si sarebbe potuta godere la vista migliore.

Trascorsi pochi minuti, vedemmo scendere, da un traghetto appena approdato, una quarantina di persone, tutte donne, di un'età non certo giovane, tra i settanta e gli ottanta anni, dall'abbigliamento immancabilmente americano.

Dopo che costoro, tra un vocio e un brusio, ebbero occupato i loro posti sul mezzo di trasporto, l'autista porse a tutti un saluto di benvenuto e avviò il pullman, che, lentamente, si addentrò nel verde dell'isola, per uno stretto sentiero, che dall'alto della costa affacciava sul mare.

L'autista, assunte anche le vesti di guida turistica, continuando a guidare illustrava in inglese il panorama e le belle vedute di San Francisco, di Sausolito, di Tiburon e del West della baia, con lo sfondo del Golden Gate Bridge.

La storia dell'isola era altrettanto interessante. Riuscimmo a comprendere che fu sede dei Miwok, di comunità di allevatori, dello United States Army, ma che era divenuta celebre soprattutto per aver ospitato una «stazione di aspirazione per gli immigrati asiatici» e per un museo che raccontava la storia della loro introduzione in America.

L'autista parlava, parlava, con facondia e con vera passione. Noi comprendevamo (poco), più dai gesti che dalle parole.

Le turiste americane appartenenti alla comitiva parlottavano fra loro con un brusio continuo e non distinguibile.

Sicuramente avevano compreso che i due ospiti che le avevano precedute nella sistemazione sul carro erano italiani.

Alla prima sosta effettuata in uno spiazzo panoramico adatto alle foto ricordo, infatti, una donna, tra le più giovani (si fa per dire) e ardite si avvicinò a mia moglie e a me e ci chiese se eravamo italiani.

Alla nostra risposta affermativa ci confidò di aver sposato, in gioventù, un italiano, di aver visitato con lui durante il viaggio di nozze Napoli e l'isola di Capri e di conservare di quei luoghi un ricordo tenero e incantevole. Purtroppo - concluse - aveva perduto quel marito da oltre vent'anni.

Ci fermammo una seconda volta per visitare il museo che conservava la storia dell'immigrazione asiatica in America.

Prima di entrare nel fabbricato ci si accostò un'altra signora, sui settantacinque anni. Dopo aver avuto da noi la conferma che eravamo italiani, volle raccontarci di aver compiuto a Venezia il viaggio più bello della sua vita, con l'uomo che più di tutti aveva amato, e che purtroppo era deceduto tragicamente in giovane età, quando si accingeva a raggiungerla in America.

Commossa dai ricordi, più che dalla nostra partecipazione compita, prima di accomiatarsi volle abbracciarci affettuosamente.

Alla terza sosta del pullman, che avrebbe dovuto servire per fotografare da posizione favorevole il Golden Gate Bridge, ne fummo impediti da una donna, forse la più anziana, sicuramente prossima agli ottanta anni, che volle graziosamente informarci anche lei dei suoi passati amori, sbocciati a Portofino, a Firenze, a Positano, a Roma e, dulcis in fundo, a Catania.

Quest'ultimo amore, anch'esso finito da lungo tempo causa decesso, era il padre delle sue figliole, due perle del Mediterraneo, che lei aveva voluto chiamare, dal nome della località siciliana dove aveva abitato felice, rispettivamente Aci e Trezza.

Queste due filie, che la venivano a trovare regolarmente alla casa di riposo per anziane residenti a San Francisco, ove lei aveva dimora ormai fissa, erano la consolazione della sua vecchiaia.

Risaliti dopo il commiato sulla vettura, mia moglie ed io evitammo di scendere alla quarta e ultima fermata, frastornati da tanto turbinio di sentimenti forti e concorrenti di amore, di cordoglio e di nostalgia, che ci avevano convinto che, se San Francisco non si poteva ancora dire la più europea delle città americane, avrebbe potuto essere almeno considerata la città americana più innamorata degli italiani.


Roberto Melchiorre

 

R. Melchiorre, Tre lettere per Irene e altri racconti, Armando, Roma 2014.

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