Per un'altra ipotesi sull'origine del nome Capracotta è opportuno fare riferimento alla Tavola Osca e più precisamente allo studio del prof. Adriano La Regina che ne dà una pregevole traduzione. Nella Tavola Osca sono elencati i riti in onore di Kerrì, parola che deriva dalla Kore greca. Kore, figlia della dea Demetra, per i Greci era la metafora del seme, per i Romani Demetra divenne Cerere, la dea del raccolto e delle messi, mentre Kore divenne Proserpina; presso i Sanniti, invece, Kerrì indicò più ampiamente la terra-madre della natura e degli esseri viventi.
La Tavola elenca i riti che si celebravano nell'orto sacro recintato da un muro sul quale la Tavola era appesa e riporta le cerimonie in onore della terra-Kerrì nominandone tutte le implicazioni, le sue acque, i suoi semi, i suoi fiori e i suoi frutti, ma nel contempo dà anche una informazione su un rito speciale che doveva essere il più importante se per la sua descrizione nella Tavola sono usate otto parole. La descrizione si trova nel lato A in A17 e viene ripetuta nel lato B in B20 ed è degna di particolare attenzione. Secondo la traduzione e la corretta intuizione del prof. La Regina, nel lato A si intende l'aggiunta del giorno stabilito per i riti (statif), parola che precede tutti i riti elencati.
L'intera descrizione del rito è in queste 8 parole: assaì purasiaì saahtùm tefùrùm alttreì pùtereìpid akeneì /sakahitèr. La traduzione del prof. La Regina della parola tefùrùm non è data con precisione anche se la sua intuizione è pertinente in quanto si parla di un sacrificio sul fuoco, infatti la traduzione del professore è: si sacrifica sull'ara ignea ogni due anni.
La parola tefùrùm necessita di approfondimento. La parola, con metatesi della r con f, contiene tutte le consonanti del verbo greco terfòo che significa "incenerire". Quindi si potrebbe tradurre con "sacrificio di incenerimento" (di bruciare la vittima, sicuramente un animale) ogni due anni. Per quanto riguarda le parole assaì purasiaì, può essere di aiuto ancora una volta il greco assaì, forse una forma derivante da sàrcs-sarkòs (di nuovo con variazione da metatesi ed in più con assonanza) che significa "carne" (si pensi all'analogia della parola assaì con la parola spagnola asado che significa "carne arrosto") e purasiaì che più chiaramente deriva dal greco pùr-puròs che significa "fuoco". La traduzione completa della frase assaì purasiaì saahtùm tefùrùm alttreì pùtereìpid /sakahìter potrebbe essere questa: "giorno stabilito per il sacrificio di incenerimento" (della vittima-animale) che si ripete "ogni due anni per i semi da spargere" in occasione della "putrefazione", come le due parole pùtereì pidakeneì lasciano intendere. Per quanto riguarda l'interpretazione della parola putereipìd potrebbe essere una parola composta dalla radice latina pute da puteo che significa essere putrefatto e dalla radice greca rei da rèo, un verbo che ha come secondo significato "spargere", "seminare". La commistione linguistica di greco e latino è possibile perché la lingua osca era formata sia da radici greco-arcaiche, (base di una lingua orale anteriore al greco classico scritto), che formavano la lingua parlata dagli agricoltori provenienti dalle isole greche, sia da radici latine introdotte in seguito alla ibridazione dei due ceppi linguistici. Il riferimento alla putrefazione può essere considerato perché è documentato un rituale di propiziazione della fertilità della terra in onore di Demetra che consisteva nel mescolare, in autunno, i semi di cereali e legumi insieme a pezzi di carne putrefatta, precedentemente buttata in un pozzo, di un maiale sacrificato, animale sacro a Demetra, presso i Sanniti sacro a Kerrì, data l'assimilazione delle due dee greche Demetra-Kore avvenuta nel suo nome.
L'importante indicazione della Tavola Osca dice anche che questo sacrificio avveniva ogni due anni in onore di Kerrì, la terra-madre di ogni cosa, molto adorata dai contadini perché loro fonte di sostentamento e di vita. I Sanniti prima di essere un popolo di valorosi guerrieri erano un popolo di esperti agricoltori e allevatori. Ne sono dimostrazione le feste popolari che ancora sono celebrate nel Molise e nelle altre regioni da loro abitate. Tutte celebrano la terra e i suoi frutti e tutte conservano frammenti significativi di antichissimi i rituali agrari. Si pensi alla festa del grano di Jelsi, alle Tavole di San Giuseppe che si preparano in tutta la regione che celebrano le primizie che la terra offre in primavera o alle Carresi del Basso Molise con protagonisti i buoi, animali utilissimi per i lavori agricoli, (nonché loro animale-totem) solo per citarne alcune.
Nell'immaginario dei nostri progenitori-agricoltori la terra era associata al femminile e i semi al maschile e questo connubio rappresentava il fulcro della loro idea di sacralità e i loro riti erano tutti propiziatori della fertilità di entrambi questi soggetti ritenuti sacri: la terra e i semi da una parte e il femminile e il maschile degli esseri umani dall’altra. La Tavola è datata tra il III e il II secolo a. C., l'epoca della fine delle guerre sannitiche, il periodo che diede inizio al dominio di Roma sulle terre del Sannio. È noto che ai popoli sottomessi di solito i Romani lasciavano la libertà di celebrare i loro riti in quanto erano interessati principalmente alla riscossione dei tributi e alla requisizione di schiavi.
Per quanto riguarda il rito di sacrificio descritto nel puntuale e circostanziato lavoro sull'origine romana della cittadina e del suo nome si può supporre che probabilmente fosse un rito che da tempo era celebrato dalle popolazioni locali sottomesse. Nel corso dei secoli successivi con l'affermarsi della nuova religione cristiana che spostava l'attenzione dalla terra al cielo fu necessario trovare un compromesso con le cerimonie agrarie della tradizione locale ed è per questo motivo che parti di quei riti furono inglobati nella nuova religione, con operazioni di mirabile sincretismo religioso. Nei paesi mediterranei, in cui la vocazione agricola era più accentuata, la sacralità della terra e del femminile furono ravvisati e proiettati nel culto della Madonna e continuarono a coesistere nel tempo. Per questa stretta relazione del sacro tra la terra e il femminile è utile una riflessione sulla festa popolare della Madonna di Loreto di Capracotta, una festa religiosa molto importante.
Se Kerrì era la terra ed era tanto venerata in quel recinto sacro, che nella Tavola Osca è chiamato hurz, "orto sacro", allora quel culto così forte può essersi congiunto con quello della Madonna di Capracotta, la cui festa non si celebra ogni anno, ma ogni tre anni. Questa analogia che riguarda la data differita, seppure con lo slittamento di un anno, suggerisce una certa relazione tra quel rituale della Kerrì osca e la festa popolare moderna della Madonna di Loreto. C'è una ulteriore analogia con questa festa moderna ed è il tempo della sua celebrazione. Essa si festeggia a settembre all'approssimarsi dell'equinozio autunnale che prelude al tempo della semina proprio come lascia intendere il sacrificio dell'animale bruciato per propiziare la fertilità della terra. Dunque alla Kerrì osca era dedicato il sacrificio più importante, quello dell'animale bruciato in suo onore descritto con ben otto parole nell'angusto spazio della piccola Tavola. Oltre ad essere un popolo di contadini i Sanniti dell'Appennino interno erano un popolo di pastori e che fosse una capra ad essere sacrificata sembra più che pertinente. Per queste ragioni credo che il nome di questo splendido paese, Capracotta, si riferisca davvero al sacrificio di una capra abbrustolita in onore dell'antica Kerrì, che aveva il suo recinto sacro nei pressi del Monte Cerro che si chiama ancora come lei, Cerro-Kerrì, un nome scritto e ripetuto tante volte sulla Tavola Osca di Capracotta... e non di Agnone come erroneamente la Tavola viene chiamata.
Un'ultima considerazione sullo stemma comunale di Capracotta che mi è piaciuto tanto e che mi ha spinto a ricercare l'origine del nome di questo delizioso paese. Non è importante quando sia stato realizzato, quello che conta è l'idea istintiva di chi lo ha riprodotto. Le idee sono la riproduzione dei simboli che raffigurano gli archetipi immagazzinati dentro ognuno di noi e mai cancellati: i simboli essenziali di quello che siamo stati e che possono riaffiorare in qualunque momento della vita di tutti noi e, come già è stato detto, allo stesso modo anche le parole, le usanze, i dialetti conservano solo le cose più significative accadute nel passato.
Paola Di Giannantonio
Bibliografia di riferimento:
J. Campbell, Le figure del mito, CDE, Milano 1991;
L. L. Cavalli-Sforza, P. Menozzi e A. Piazza, Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, Milano 1997;
Claudiano, Il ratto di Proserpina, Gismondi, Roma 1952;
P. Di Giannantonio, Demetra per sempre, Fuller, s.l., 2005;
P. Di Giannantonio, Terratradita, Fotolampo, Campobasso 2009;
P. Di Giannantonio, I Misteri di Campobasso: una festa agraria dei Sanniti, Homeless Book, Faenza 2014;
P. Di Sacco, Corso di storia, vol. I, Le Monnier, Firenze 2005;
L. di Samosata, Dialoghi delle cortigiane, Vallardi, Milano 1953;
R. Graves, I miti greci, Longanesi, Milano 1955;
C. G. Jung, L'uomo e i suoi simboli, Longanesi, Milano 1964;
Omero, L'inno omerico a Demetra, Giusti, Livorno 1896.
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