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Da Capracotta alla Germania


Giovanni Pollice
Donato Pollice (al centro) e discendenti al ricevimento per i 60 anni dei "Gastarbeiter" presso la cancelleria tedesca.

Correva l'inizio dell'anno 1960, quando all'ufficio di collocamento di Capracotta arrivò dalla Germania una richiesta di manodopera. Questo, in base ai contratti di reclutamento di manodopera previsti tra l'Italia e la Germania dall'accordo del 1955. Gli iscritti alle liste dei disoccupati vennero avvertiti dell'offerta di lavoro, al ché cinque di essi decisero di accettarla facendo quindi domanda. Dopo qualche settimana ai cinque arrivò l'invito di presentarsi a Verona per sottoporsi ad una visita medica. In quella città, infatti, c'era la sede della commissione tedesca istituita appositamente per accertare lo stato di salute delle persone interessate ad emigrare in Germania. Va ricordato che allora non esisteva la libera circolazione dei lavoratori come la conosciamo oggi. Per poter arrivare in Germania gli interessati dovevano sottoporsi ad una visita che, visto come veniva espletata, era da considerare al limite della violazione della dignità umana. Solo chi era sano al 100% passava; gli altri venivano rimandati a casa. Ed era proprio questa la paura di tante persone, cioè quella di non superare la visita e quindi vedersi rispediti al mittente, il che comportava la perdita di denaro, che allora non c'era, per le spese necessarie ad affrontare il viaggio per Verona. I primi cinque capracottesi partirono l'11 Aprile del 1960 e si chiamavano: Pasquale Carnevale, Nicola Colangelo, Enrico Di Ianni, Donato Pollice e Giovanni Potena.

Arrivati a Verona tutti e cinque superarono le visite mediche. Quattro di essi, caricati su un treno, furono mandati a lavorare in una cava di pietre nei paraggi di Baden Baden, al sud della Germania. Mentre il quinto, Enrico Di Ianni, approdò nei pressi di Stoccarda, in una fabbrica di legno compensato. Arrivati a destinazione, i quattro vennero sistemati in una baracca senza né bagno e né acqua. E lì rimasero, qualcuno per soli otto mesi, fino cioè alla scadenza del contratto. Qualcun altro, dopo il ritorno a Capracotta per le festività natalizie, la primavera successiva tornò di nuovo a lavorare in quel luogo per rimanerci ancora qualche anno. Quelli che non tornarono a lavorare nella cava di pietre, al ritorno in Germania si cercarono un altro lavoro e vi rimasero a lungo.

Uno di essi, Donato Pollice, che come tutti gli altri voleva restare in Germania solo per pochi anni, continua a vivere ancora lì, assieme alla moglie ed ai figli che lo raggiunsero nel 1966. Infatti, il sogno di queste persone era quello di tornare in Italia non appena messi da parte i soldi necessari per comprare una casa nuova, magari non a Capracotta da cui tutti scappavano in quegli anni, ma in una città dove i figli potevano fare una vita diversa da quella che loro avevano conosciuto. Tuttavia, ben presto si dovettero rendere conto che l'emigrazione non era un capriccio, ma una mano forte e pesante capace di piegare il destino delle persone.

Questi emigrati hanno svolto le mansioni più basse ed i lavori più duri, sempre accettate per necessità ma anche in cambio di certezze contrattuali e retributive quasi sconosciute negli ambienti sociali e lavorativi da cui erano partiti. Le condizioni di vita della prima generazione ha poi condizionato quelle delle successive generazioni a causa del rigido sistema scolastico e formativo tedesco che, per l'alto tasso di selettività che esprime, tende a riprodurre i ruoli sociali di partenza. Il basso grado di integrazione degli immigrati italiani in Germania rispetto ai ruoli sociali che sono stati loro riconosciuti pur nella fase di sensibile evoluzione e sviluppo che ha caratterizzato la storia recente di questo paese, trova, secondo me, in sostanza due risposte ragionevoli: prima di tutto, ha funzionato il grande scambio tra buoni salari, buona attesa pensionistica e buoni servizi sociali da un lato ed accettazione di mansioni e ruoli di rango non elevato dall’altro. In più, la permanenza in Germania da parte dei nostri emigrati è stata concepita e vissuta come una presenza temporanea, in vista di un auspicabile ritorno in patria.

Ma la presenza temporanea, via facendo, si è trasformata in insediamento stabile ed in molti casi definitivo per l'affiorare di elementi che non erano compresi nell'iniziale progetto di vita, e che solo con il tempo vi sono entrati in maniera preponderante. Il radicarsi dei figli e dei nipoti; l'investimento dei risparmi in terra tedesca, in particolare nelle case; la convinzione, con l'avanzare dell'età, di non poter fare a meno della qualità dei servizi sanitari e sociali, che ancora non trova adeguato riscontro in Italia, soprattutto nelle regioni meridionali.

Nell'anonimato democratico e civile degli italiani in Germania, al quale evidentemente non sfuggono né i molisani, né i pochi capracottesi rimasti, vi è dunque un duplice segno che va pazientemente decifrato. Da un lato vi è un segnale di progresso sociale, cioè di lavoratori stabilizzati che sentono meno il morso del bisogno e della tutela o che ad un certo punto del loro percorso lasciano un'occupazione dipendente e si avviano verso un'attività in proprio. Dall'altro una rivelazione assai preoccupante di un'esclusione sociale ancora forte e di una conseguente ricaduta in aree di marginalità indistinta, dove è difficile recuperare una pratica attiva dei diritti in collaborazione con soggetti sindacali e politici.

A questo punto tengo a precisare che non è mia intenzione mettere in cattiva luce gli italiani che vivono in Germania, ma cerco di descrivere la loro reale situazione che vede, come accennavo prima, anche degli esempi positivi. Certo è che la colpa, se di colpa si può parlare, di questa difficile situazione, non va attribuita solamente agli stessi italiani, ma soprattutto al Paese ospitante. Perché, nonostante la Germania fosse una storica terra di immigrazione, è mancata, da parte dei governi succedutisi nel tempo, la volontà di attuare concrete politiche di integrazione sociale dei lavoratori stranieri. Questi, infatti, pur essendo, grazie anche all'impegno del Sindacato, sempre stati integrati dal punto di vista lavorativo, poiché indispensabili a sostenere il boom economico tedesco, non hanno mai beneficiato di interventi volti a garantire il loro inserimento nella collettività (vedi ad esempio la mancanza di adeguate politiche scolastiche).

Per anni il Sindacato, che mi onoro di rappresentare, si è battuto affinché venisse varata una legge di tutela e integrazione per i lavoratori stranieri, ma solo negli ultimi anni il Governo tedesco ha varato una legge che dà un minimo di garanzie sociali (ad esempio corsi di lingua per i lavoratori stranieri).

Un'ultima osservazione vorrei farla sui molisani. In Germania è difficile trovarli, sia perché sono dispersi in grandi aree, sia perché non si sono aggregati nei modi usuali degli altri emigrati, vale a dire in associazioni paesane e regionali. Per motivarli verso il Molise occorre prima individuarli e realizzare una possibilità di colloquio. Tuttavia, per farlo bisognerebbe avere un progetto serio e strumenti adeguati, forniti dall'iniziativa degli enti pubblici. Ma dov'è tutto questo?


Giovanni Pollice

 

Fonte: G. Pollice, Da Capracotta alla Germania: uomini in cerca di fortuna, in «Voria», I:0, Capracotta, aprile 2007.

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