In villa c'è stato il cambio della guardia. I miei vicini sono scontenti, dicono che ho rotto una tradizione, che si erano abituati alle accoglienze di Timoteo, allo sguardo di animale domestico di sua moglie. Sì, Timoteo era davvero un "virtuoso" dell'accoglienza. Agli ospiti nuovi andava incontro come fossero i re Magi, lungamente attesi; agli amici di casa, visti magari pochi giorni prima, sussurrava un delicato rimprovero per la prolungata assenza. Faceva sempre in modo di trovarsi lui sullo spiazzale appena sentiva una tromba di automobile ed io glielo lasciavo fare volentieri perché era il suo modo di partecipare alla vita socievole della casa, di ordire la trama delle sue seduzioni personali con i miei ospiti. Conquistarli era il suo orgoglio, recitare la parte del factotum indispensabile in modo che gli altri invidiassero la sua presenza in casa mia, era il suo scopo preciso. Ci riusciva perfettamente. Quando venne da me aveva ventotto anni, era bellissimo, capelli neri lucenti e occhi verdi, una figura astuta, piccoli piedi da danzatore, movimenti felini. Aveva lavorato nel "nord" e secondo i locali, sempre diffidenti degli espatriati, doveva essere esperto di "polverine". Aveva sposato una donna intelligente, buona, bravissima in tutto, la figlia e sorella dei miei contadini che per anni gliel'avevano rifiutata, accendendo così le sue ire, e non appena sposati li avevo presi entrambi da me. Da allora Timoteo impugnò il manico del comando di casa mia, dove si era autonominato amministratore, factotum, uomo di fiducia e impresario. Alle mie spalle ordinava, comandava, impartiva istruzioni, amministrava questo fazzoletto di terra che non aveva altro valore (ma per lui era immenso) che di essere lavorato dagli odiati congiunti ai quali, così, dettava legge. Perché la prima e più travolgente passione di Timoteo era quella di comandare.
– Davanti a me tremano –, diceva gonfiandosi nel collo come un tacchino, mentre gli occhi mandavano scintille.
Io cercavo di ignorare questo suo gioco dato che il risultato tangibile ne era il perfetto, impeccabile andamento della mia casa. Lavorava con piacere e con gusto, come se la casa fosse stata sua.
– La nostra casa è la meglio –, diceva; soffriva solo delle necessarie parsimonie, avrebbe voluto vivere in un eterno scialio e non potendolo, correggeva la ristrettezza con la perfezione di un servizio inappuntabile e perfino estetico.
Sapeva trasformare l'offerta d'una tazza di tè in un rito e un modesto pranzo in un simposio. Indossare la divisa era per lui come per Nijnsky, suppongo, i serici costumi di danza. Si muoveva con la leggerezza di un acrobata, letteralmente volteggiava tra i piatti, al punto che temevo, a volte, prendesse a farmeli saltare in aria per prodursi in qualche bravura aggiunta. La mia tavola da pranzo essendo stretta, mi rammaricavo se eravamo in molti. Nossignore, era proprio quello che lo stuzzicava: sollevare in alto la salsiera evitando le mosse brusche del conversatore infervorato e sfuggire per un capello alla catastrofe. Allora mi guardava fierissimo, come a dire:
– Avete visto di che è capace Timoteo!
Dove avesse imparato i segreti delle differenze sociali fin nelle sfumature, è sempre rimasto un enigma. Annusava la ricchezza come un cane la lepre, ma anche la distinzione dietro la povertà. L'odore del cafone, di quello che finge di essere quello che non è, lo sentiva già prima di entrare in salotto e si comportava di conseguenza. Se scopriva che un ospite era avaro o solamente regardant, prendeva ad odiarlo, ne sbagliava i nomi, a tavola mandava le pietanze insipide.
– Ma Timoteo, vi ho detto tante volte che questo signore non si chiama così.
Mi lanciava uno sguardo di uccello, lontano e indifferente e continuava imperterrito a deformare i nomi, che risultavano ridicoli.
Aveva il genio d'indovinare le ore propizie per sorprendermi, per far breccia. I nostri tragitti in macchina dalla campagna in città e viceversa erano trappole aperte, sfide alla mia capacità di resistenza. Approfittava di una luce insolita sul mare, di un palazzo di Vanvitelli che al passaggio m'ispirava commenti euforici, per insinuarmi una richiesta, espormi progetti assurdi, strapparmi una promessa. Ora voleva studiare l'inglese e mi faceva comprare di urgenza la grammatica che poi restava intonsa, ora voleva indurmi a far venire il rabdomante per scoprire l'acqua nel mio pezzetto di terra, così che saremmo diventati ricchi «come il conte Cini» o il Comandante Lauro (i suoi idoli). Mi sembrava di avere a che fare con un giocoliere che tirasse fuori dal pugno fazzoletti colorati, uccelli variopinti, bianche colombe, che prendevano il volo come i suoi pazzi sogni; e temevo sempre che un giorno o l'altro avrei visto saltar fuori dal risvolto della sua manica la chiave di casa, passata intanto dalle mie mani alle sue.
Se la casa restava troppo a lungo solitaria cadeva in malumori tetri, si nascondeva come il Vesuvio in fitti strati di nebbia. O dormiva sonni letargici, da rettile sazio. Poi spiava i telegrammi nella speranza che annunziassero ospiti, con prospettiva di pranzi o gite nelle locali Sodome e Gomorre. Allora rifioriva. Soprattutto se erano ospiti di cui poteva ritrovare il nome nel gazzettino del giornale. I nomi stampati lo affascinavano, se ne riempiva la bocca. Una volta, mentre trafficava con certe persiane avvolgibili di cui non capiva il meccanismo, lo sentii che diceva:
– Qua, per capirci, ci vorrebbe Benedetto Croce.
A tavola non perdeva una parola, faceva tesoro di tutto, poi cucinava personaggi e fatti con intingoli suoi e li serviva in truculenti pasticci alle donne che sempre gli ronzavano intorno. Non mi perdonava la macchina da scrivere:
– Una signora come voi!
Il ticchettio della macchina gli evocava un mondo grigio di uffici polverosi, senza imprevisti e senza glorie. Per il gusto di interrompermi a volte entrava in studio con lo scatto dell'urgenza:
– Signora, vi state perdendo un tramonto.
Naturalmente lasciavo di scrivere e correvo in terrazza. Lui, nel giardino sottostante, litigava col contadino, del tutto indifferente ai conflitti di nuvole, alle spade di fuoco sul golfo.
Qualche volta, per vendicarmi delle tirannie che mi faceva subire, prendevo a cantare le lodi del suo predecessore. Lo facevo senza averne l'aria, lasciavo cadere il discorso sul domestico Vincenzo che era stato in casa dal giorno delle nozze fino a quando me lo ero portato in campagna, due anni prima di andare in pensione. Si chiamava Carnevale, ma era malinconicissimo, un uomo di innata nobiltà e saggezza, un vero filosofo. Era di Capracotta, fiero ed orgoglioso del suo Molise; poche persone ho conosciuto al mondo più dignitose e che ispirassero maggior rispetto. Da giovane aveva studiato e aveva conservato l'amore per la cultura e una grande disposizione ad acquistarla. Quando fu malato a lungo, scoprimmo che leggeva la corrispondenza di Nigra e Cavour. La sua grande ambizione era di parlare di politica con mio suocero. Conosceva canti di Dante a memoria, e assistere alle ripetizioni che facevo a mio figlio e all'occorrenza suggerirgli qualche risposta, era il colmo della sua felicità. Ci dava del tu, a tutti, e lavorava con devozione, compiendo sempre gli stessi gesti lunghi e tranquilli, scrupolosamente. Noi l'amavamo.
Ce ne volevano Timotei per fare un dito di Vincenzo Carnevale! Questo non lo dicevo, ma bastava che lo nominassi, e Timoteo avvampava d'invidia, mi lanciava occhiate di odio; per intere giornate s'ammusoniva.
Ma un giorno, a Timoteo, gli saltò addosso «un pensiero», come diceva lui, che a differenza dei soliti, volubilissimi, prese a roderlo sordo sordo come un tarlo, e quando venne alla luce c'era già una larga breccia nella compagine della sua fedeltà alla «nostra casa».
– Un uomo che si rispetti, – diceva, – deve farsi una casa.
– Ma con quali denari ve la farete, Timoteo, visto che piangete miseria?
– Coi debiti, – mi rispose, – come fanno i signori.
L'idea della casa «tutta sua», che prese subito a costruire, glie la vedevo crescere intorno agli occhi come un cerchio violaceo che lo invecchiava. Dal mio scantinato incominciarono ad emigrare mobili e oggetti dei quali con infallibile oratoria mi dimostrava la impossibile resurrezione.
– Ma allora, – gli chiesi un giorno, – se vi costruite una casa vuol dire che ve ne andrete dalla mia?
– Mai più, – mi rispose battagliero e bugiardo, – io devo morire in casa vostra, quest'altra me la fo per fittarla e perché un uomo deve avere una casa tutta sua.
Andarsene, d'altra parte avrebbe significato abbandonare il teatro delle proprie gesta, non far più tremare i congiunti, che, partito lui, avrebbero ripreso a spadroneggiare. Si era cacciato in un dilemma, i debiti aumentavano, mentre i pranzi, in casa mia, si facevano più rari. A soccorrerlo venne l'abile consiglio di un illuminato. Se fosse stato licenziato avrebbe avuto una buona liquidazione che avrebbe tappato i primi buchi, ma occorreva un pretesto, e in quel tempo, forse perché depresso all'idea di andarsene, sembrava che non avesse la necessaria baldanza per inventarlo. Il destino glie lo offrì nella persona della mia giovanissima nuora venuta da Sicilia (terra ancora usa al comando) la quale, appena giunta, non vedendo in Timoteo altro che un comune domestico e non, quale era, un personaggio antico, un mimo di commedia di Plauto, un genius loci, gli ordinò qualcosa con tono imperioso. Fu la catastrofe. Con gli occhi fuor dell'orbita, mi impose la scelta:
– Se la giovane signora resta qua, io me ne vado.
Ebbe la sua liquidazione e se ne andò, la moglie in lagrime, lui incredulo di questo precipitoso cataclisma di cui non sapeva se essere il carnefice o la vittima.
– Ma come farete senza di me? – chiedeva, protettore, convinto, che senza di lui la casa sarebbe andata a rotoli.
– Il mare è pieno di pesci, Timoteo, e intanto verranno due toscani.
– Toscani, qua?
Sembrava l'uomo che ha visto il fantasma.
Sono venuti, difatti, i toscani, parsimoniosi, civili, onestissimi; piccoli proprietari che non sono stati mai a servizio e non ce la fanno ad entusiasmarsi per una casa che non è la loro. Nei loro sguardi riservati e un poco spenti, intravedo un campicello, con la siepe e il cipresso a guardia.
Vive ora sulla mia casa un placido tran tran, in sordina, e io non sono più assillata, insidiata dai capricci di Timoteo. Ma se c'è un pranzo, mi sento vagamente colpevole di imporre ai toscani un lavoro in più, per gente cui loro restano del tutto indifferenti. Altrimenti non mi lagno; vorrei solo che avessero maggiore vitalità per guardare con curiosità e benevolenza il mondo circostante e mi chiudessero le porte che invece lasciano sempre accostate, e il vento, che qui è impetuoso, le spalanca e sbatacchia. Da una di queste porte spalancate, prima o poi, purtroppo, passeranno anche i toscani.
Clotilde Marghieri
Fonte: C. Marghieri, Vita in villa, Ricciardi, Milano-Napoli 1961.
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