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Il grande viaggio (I)



Lo scrittore narra le vicende di un viaggio fatto quando aveva cinque anni, in compagnia del nonno, da Isernia a Capracotta, paese dell'Alto Molise. Il viaggio, che si svolge parte in treno e parte in diligenza, dura sei ore ma è così denso di avvenimenti che agli occhi del bambino assume le proporzioni di una straordinaria avventura. Oltre al paesaggio assai vario che affascina il bambino con i suoi prati verdi, i boschi sterminati, le conche pietrose e le immense rocce, ci sono i compagni di viaggio: un signore dall'aspetto burbero, una signora con il volto delicato e coperto da un velo, un uomo vestito con pesanti panni di lana e Giacomo, il cocchiere che lo prende sotto la sua protezione. E poi la sosta per mangiare, presso una taverna, una grande casa dipinta di rosso sbiadito; l'improvviso e minaccioso apparire, sopra uno scheggione roccioso, di un uomo avvolto in un mantello, con il volto coperto da un cappello a larghe falde e un fucile a tracolla; una muta di cani che insegue una volpe; e infine il paese che si offre agli occhi estatici del bambino in un tripudio di luce.


Titina Sardelli

 

Il grande viaggio

Una sorella di mia madre aveva sposato il segretario comunale di un paese di montagna, dove già ero stato condotto in un tempo in cui non mi rendevo conto delle distanze e delle differenze altimetriche; quando vi tornai con mio nonno ero in grado di comprendere ed anche di apprezzare l'importanza del trasferimento. Avremmo dovuto viaggiare prima in ferrovia e poi in carrozza, percorrendo trenta chilometri col treno in un'ora circa e venti chilometri di rotabile in quattro ore.

Ad aggiungervi le soste bisognava calcolare sei ore di viaggio. I preparativi risultarono lunghi e minuziosi.

In previsione delle differenze di clima fu approntato un minuscolo guardaroba d'indumenti per me; in una scatola di cartone vennero riposti i giocattoli ai quali ero maggiormente attaccato. Poi furono preparate le ceste della frutta, degli ortaggi, dando la preferenza a tutto ciò che mangiavo più volentieri.

I baci e gli abbracci nel momento del distacco accrebbero lo stordimento sicché mi sentii rinfrancato quando il treno, avviandosi, mi sottrasse alla confusione e mi consentì di riordinare i pensieri.

Mattino di avanzata primavera: nello scompartimento, seduto di fronte al nonno, che mi guardava col suo sorriso bonario e lucente di orgoglio, mi sentivo contento. Cominciavamo a intenderci bene, io e lui. La sera precedente a quella partenza avevo mandato in frantumi un vaso da fiori (in casa non erano molti, a quel tempo), che il nonno giudicava ingombrante e brutto. Mi difese dai rimproveri e, mentre mi portavano a letto, mi diede una caramella dolcissima dal fresco sapore di menta. Adesso, sul treno, speravo che ne avesse altre di quel sapore.

Mi andavo rimettendo in sesto dalle piccole emozioni e rimanevo fermo, silenzioso, sul sedile; il nonno si chiedeva forse ragione di un tal prodigio.

Non durò: alla prima fermata misi i piedi a terra e cominciai a toccare tutto; in breve le mie mani divennero nere e sporcai anche il vestito. Mi condusse in uno stanzino tutto bianco e mi lavò mentre sbalordivo dalla meraviglia nello scoprire che sul treno, che correva all'impazzata, ci fosse un fontanino vero con l'acqua corrente, e che lì si potesse fare anche la pipì.

Quando ritornammo a sederci sui sedili, il treno si era avvicinato ai monti e la strada ferrata aveva preso quota.

Vedevo finalmente da vicino le montagne, il regno delle foreste e delle nevi, dove stavano i lupi e i briganti.

Le montagne, dove mi sarebbe piaciuto tanto vivere con i cavalli, con i cani, con le volpi, con le lepri, con le faine. Iniziò la serie delle domande. Quante cose volevo sapere! le risposte del nonno erano sempre pronte, sollecite, soddisfacenti, ma provocavano altre domande, alle quali seguivano altre risposte, altre spiegazioni e non si stancava mai, povero nonno!

L'ora trascorse e giungemmo allo scalo dove bisognava lasciare il treno e salire in una diligenza già pronta. La guidava un uomo alto e grosso, Giacomo, che aveva baffi ingialliti in mezzo al volto.

Egli mi prese in braccio, mi sollevò in aria al di sopra della sua testa, poi avvicinò il mio viso a quel cespuglio giallo e ispido come per darmi un bacio: mi investì il tanfo del tabacco. Mi depose poi direttamente sul sedile della carrozza. Dentro l'abitacolo c'era poca luce, poca aria, il soffitto rivestito di panno chiaro, le pareti di una tela cerata scura e fredda. Osservavo queste cose mentre mi giungevano voci confuse, richiami, saluti, risate.

La diligenza era appena partita, con un gran rumore ed un allegro tintinnio di campanelli, che già cominciavo a protestare ed a tirare il bavero della giacca di mio nonno pretendendo di scendere.

Cera con noi un signore dall'aspetto burbero: mi aveva colpito per la piccola barba a punta che dava al volto di lui un'espressione caprina. Altro motivo d'interesse, la spilla lucente infilata nella cravatta.

Lo guardavo e il capriccio cresceva, un'istintiva antipatia per quello sconosciuto aumentava il mio disagio e la punta della sua barba, che minacciava troppo da vicino, dava insopportabile fastidio, e fastidio mi procuravano le pupille scure che mi fissavano di continuo. Egli disse:

– Questo moccioso comincia troppo spesso a fare i capricci.

Il nonno trasse di tasca un fazzoletto e mi pulì accuratamente il naso, aprì completamente il vetro di un finestrino, rispondendo nello stesso tempo a quel signore che la carrozza era troppo angusta e dava un po' di oppressione; l'altro continuò chiedendosi se si dovesse rischiare di prendere un malanno pur di appagare le pretese di un bambino.

Le ostilità erano ormai aperte quando intervenne, con intenzioni pacificatrici, una signora né giovane né vecchia con una lunga giacca di colore verdino, sulla quale erano attaccati tanti bei bottoni di vetro verde. Portava sulla testa un cappellino con la metà di uno stranissimo uccello, che non avevo veduto mai sui tetti della chiesa né sugli alberi del giardino del convento di Santa Chiara e nemmeno in campagna.

Dalla falda del cappello scendeva intorno al capo di lei un velo, che dopo aver trattenuto l'uccello, in modo da imperdirgli il volo e da schiacciarlo addirittura, copriva il viso e i capelli della donna.

Il velo era annodato sotto il mento, più giù si vedeva un triangolo di pelle bianchissima.

La signora allungò una mano inguantata per carezzarmi e disse con voce dolcissima:

– Povero bimbo, e dire che dovrà stare più di quattro ore qui dentro.

Quattro ore! ma erano matti? Io non ci sarei stato nemmeno quattro minuti! E tanto per intenderci sferrai un calcio sulla gamba più vicina del signore con la barba e mi misi a gridare che volevo scendere. Quello ebbe un moto di disappunto vivacissimo, protestò energicamente mentre si spolverava il pantalone. Gli fu risposto che gli adulti hanno il dovere di comprendere e di scusare i bambini, e che se uno desiderava non avere i fastidi di un viaggio in comune, poteva noleggiare una carrozza tutta per sé.

Ma più che alle polemiche con il dirimpettaio, il nonno dovette badare a me; avevo cacciato fuori del finestrino la testa e le braccia e minacciavo di buttarmi dalla carrozza.

Mi strinse per la vita e mi trasse indietro, mentre continuavo a scalciare e a gridare; colpii ancora con i piedi il signore delle proteste ma nello stesso tempo intravidi la mano guantata della signora, che mi porgeva una grossa caramella avvolta in una carta verde pur essa. La donna si era curvata sopra di me e mi carezzava il viso in lagrime.

Per un poco mi acquietai e fui come incantato da quel modo di sorridere con i bianchissimi denti scoperti fra le labbra sottili. Fissai i grandi bottoni verdi del suo abito.

Succhiavo con furia il sapore fresco della menta e mi pareva di avere proprio uno di quei bottoni tra lingua e palato. Il nonno intanto contonuava a discutere con il signore dalla barba; litigavano ormai.

A risolvere la situazione fu l'uomo che occupava il quinto posto della carrozza; era vestito di pesanti panni di lana, aveva una grossa testa coperta di capelli grigi ed un volto abbronzato. Le mani, poggiate sul manico di un bastone di legno, erano coperte di peli. Allungò appunto questo bastone e picchiò contro i vetri anteriori della carrozza senza dire una parola: la carrozza si fermò; l'uomo si sporse un poco dal finestrino e disse con voce forte:

– Giacomo, prenditi il citro.

Il citro ero io. Mi presero alla vita (ma chi stringeva così forte?), mi passarono attraverso il finestrino, mi sollevarono nell'aria e subito altre mani mi afferrarono sotto le ascelle e mi trassero più in alto. Intravidi per un attimo le ceste degli ortaggi e della frutta sul tetto della carrozza e infine venni inserito fra Giacomo e il suo compagno, sopra il sedile dei cocchieri.

M'ero appena seduto nella calda stretta dei due uomini, che già un senso di felicità luminosa cominciò ad invadermi.


Franco Ciampitti


 

Fonte: F. Ciampitti, Il grande viaggio, in T. Sardelli, Narratori molisani, Marinelli, Isernia 1975.

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