top of page

Gabriele Di Tella e l'ipercorrettismo di Chieti



Il fratello del mio bisnonno Sebastiano si chiamava Gabriele Di Tella ed era un uomo istruito ma affatto particolare. Lavorava per conto di don Federico Falconi, un ricco proprietario, nel bellissimo palazzo ducale di piazza Mercato, che il padre Stanislao aveva acquistato dal Duca di Capracotta e che alcuni anni dopo rivendette al Comune per farne la sede del municipio.

I fratelli Gabriele e Sebastiano avevano sposato due sorelle, Filomena e Carmela. Gabriele e Filomena non ebbero prole ma aiutarono Sebastiano e Carmela a crescere i loro figli, che raggiunsero il numero di 11.

Era risaputo che Gabriele parlava 'mbizze, come si dice a Capracotta per intendere un linguaggio falsamente ricercato, posticcio, ridicolmente snob. Aveva, infatti, il vizio di terminare tutte le parole con -ti, per cui tata, il nome con cui si designava il proprio papà, nel personalissimo idioma di Gabriele diventava tati. La moglie di Gabriele, Filomena, era una "maestrina", colei che insegnava le norme del galateo e della buona educazione alle ragazzine capracottesi più abbienti.

Un giorno, trovandosi a male parole con un avventore del suo ufficio, Gabriele subì una grave offesa pubblica, di quelle che ai vecchi tempi si rivolgevano a uomini e donne sterili:

Zìtte tu, ca siè chiùppe!

Gabriele, con saggezza ed ironia fuori dal comune, rispose:

– Che son chiuppo non lo nego, ma a te chi te lo dice che ti chiami tati? – intendendo che la paternità biologica non è cosa certa, colpendo così nell'orgoglio virile l'interlocutore.

Tuttavia, qualcuno dovette far notare a Gabriele il suo modo strampalato di scombinare la lingua italiana, ed egli decise di correggersi. Mai più -ti, che è plurale, ma sempre -to e -ta, a seconda che fosse maschile o femminile. Non appena gli si presentò l'occasione di mettere in pratica la correzione che aveva elaborato, Gabriele non ci pensò troppo su. Dovendo inviare una corrispondenza nella bella cittadina abruzzese di Chieti, dettò al cancelliere: «...a Chieta»!

Insomma, aveva effettivamente corretto il suo italiano ma la pezza era peggiore del buco. Ironia della sorte fu che Gabriele - che mia nonna chiamava Tatajèle - prima di morire, perse l'uso della parola. Ma la morte è morta per definizione e non la si può correggere.


Francesco Mendozzi

bottom of page