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Il grande viaggio (II)


Titina Sardelli

Stava intorno il paesaggio maestoso dei monti, i prati sconfinati, i boschi scuri, le groppe rocciose, le vette bianche di neve. In questa immensità, che pareva smaltata tanto era viva nella grande luce, la strada bianca e dritta somigliava ad un sentiero ed i quattro cavalli, che, appaiati, correvano trainando la carrozza, come se non pesasse affatto, dovevano essere bestie molto allegre, uscite a divertirsi con tutti quei sognagli.

Giacomo ogni tanto cacciava un piccolo, stranissimo grido e nello stesso tempo tagliava l'aria con colpi alti di frusta, senza nemmeno sfiorare i cavalli.

La corsa continuava sempre con lo stesso ritmo, le sedici zampe, battendo a tempo lo stesso zoccolo, sfioravano appena il suolo e risaltavano più avanti. Era proprio una gioia andare così e guardare quel mare di erba che, al di là delle prode della strada, sfuggiva sotto l'occhio, si stemperava, si fondeva, assumeva tinta di acqua verde. E, sopra, ciuffi di margherite bianche e papaveri rossi e ranuncoli gialli e fiori di altri colori, motivi festosi del paesaggio.

I cavalli intanto si misero al passo. Non correvano più e Giacomo allentò un poco le redini, appoggiò un gomito sul ginocchio e si curvò un poco in avanti: era cominciata la salita.

Una salita che diventava sempre più aspra. La strada non era più diritta, seguiva il pendio, evitava gli alberi del bosco, nel quale eravamo entrati; non era un bosco ma una foresta che si infittiva; ad una svolta le piante ci strinsero addirittura, si richiusero in alto con un intrigo di rami; una galleria sotto la quale la luce penetrava molto blanda quasi che fosse bagnata ed avesse perduto la chiarità dorata del sole. Giacomo allungò una mano e con un gesto netto strappò un piccolo ramo. Me lo porse chiedendomi:

– Sei contento di venire lassù?

Lassù? Che c'era lassù? non mi ricordavo assolutamente di nulla. M'ero scordato persino della casa mia, della nonna, del babbo, di Ersilia, del gatto, dei cugini, di tutto. Il mio mondo di poche ore prima non esisteva più e come potevo avere ricordo di altri viaggi? Stavo scoprendo un mondo nuovo e le sensazioni non provate mai non lasciavano margini per nessun altro pensiero, ora non mi spaventavano le lunghe ore di strada da coprire né l'ignoto che affrontavo.

Saremmo arrivati in quel paese così strano, posto tanto in alto, lontano da tutti gli altri, d'inverno coperto da tanta neve, un paese che parlava già con un fascino sconosciuto alla mia prima ansia di avventure. D'improvviso mi ricordai del nonno. E poiché col bacio del primo incontro, col tenermi stretto al suo fianco, con il dono di quel ramo e di quelle foglie, Giacomo mi aveva fatto capire che potevao contare su di lui, a lui mi rivolsi: gli misi una mano sul braccio e gli confidai che volevo il nonno. Sorrise e rispose che tra poco ci saremmo fermati e lo avrei rivisto.

La strada, in quel tratto, era divenuta quasi pianeggiante ed i cavalli avevano nuovamente accelerato l'andatura. Non più curve strette, svolte a serpentina ma lunghi rettilinei tagliati in mezzo ad altri prati verdissimi, dove gli alberi si diradavano sempre più, lasciando spazi assai vasti intorno a loro.

In certe zone se ne stavano addirittura isolati, senza nessun'altra pianta vicina, soli a godersi il sole. Erano alberi grandissimi, con rami di eguale lunghezza disposti a cupola perfetta.

Mi chiedevo se fossero davvero contenti del modo in cui vivevano; avvertivo il dubbio che quella solitudine derivasse da una punizione, che fosse un castigo per chi sa quali colpe.

Per i prati fioriti cavalli e mucche, che pascolavano o stavano immobili o addirittura stravaccati sull'erba; forse dormivano.

Ogni tanto giungeva di lontano un abbaiare di cani. Qualcuno di questi, tutto coperto di pelame bianco era apparso d'improvviso correndo e s'era affiancato proprio alle ruote, abbaiando con rabbia. Denti bianchi dentro bocche rosse. Non si capiva che cosa volessero. Nessuno badava a loro, né i cavalli né Giacomo né il suo aiutante né la gente della carrozza. Soltanto io, guardando quelle fauci spalancate, m'impensierivo un poco.

Vedemmo all'improvviso che la strada si allargava, terminando in uno spiazzo, dove confluivano altre vie; era davanti a noi una grande casa dipinta di rosso sbiadito. Cavalli sellati e legati agli anelli di ferro rimasero fermi all'arrivo della diligenza; fu uno dei quattro che la tiravano a nitrire appena si arrestò. Si vide allora una grande giumenta scura volgere la testa a guardare.

Uscirono subito dalla casa tre uomini, poi una donna ed alcuni bambini. Giacomo fu svelto a saltare a terra e, per prima cosa, mi prese sotto le ascelle e mi depose sulla strada; faticai un poco a tenermi in piedi, in equilibrio. Bevevo a grandi sorsi l'aria, mi stropicciavo gli occhi. Cercai dopo il nonno; non ancora lo scorgevo e lui già mi aveva trovato; ora mi stringeva con tenerezza.

– Ti sei stancato? hai fame?

Non rispondevo. Entrammo nella taverna; intravidi, sospesi al soffitto scuro, lunghi festoni di salsicce, salamini, salami; e poi grossi prosciutti, formaggi rotondi, cipolle, agli legati a treccia, come le pannocchie di granturco. Mangiammo abbondantemente, bevemmo un vino bianco, asprigno e ci accingemmo presto a ripartire.

Presso la carrozza stavano il signore nemico mio e del nonno e la dama buona. Lui masticava qualche cosa muovendo la barbetta a punta, che andava su e giù. Lei aveva colto dei fiori e li contemplava. Mi sorrise ancora sentendo che parlavo con Giacomo. Questi rispondeva a monosillabi tanto badava ad accendere la pipa dalla lunga cannuccia, inserita nel fornello di creta rossa.

Finalmente una boccata di fumo bianco gli uscì dalla bocca. Si mise a ridere quando s'accorse che lo stavo osservando.

– Vuoi fumare?

Allungò la pipa verso le mie labbra ed io, d'un balzo, mi strinsi alle gambe del nonno.

Lasciammo lo spiazzo e ci mettemmo per uno stradale che, dopo un poco piegò ad angolo retto. Più avanti ancora entrammo in un bosco di alberi bassi e contorti, un intricato groviglio di rami e di frasche addirittura impenetrabile. A guardarlo fissamente mentre i cavalli avanzavano al piccolo trotto, procurava un senso di fastidio. Per fortuna quel bosco finì presto; si trasformò in un cespuglieto, che divenne molto rado ed infine lasciò spazio ad una ondulata prateria, che dilagava verso l'orizzonte.

La pendenza divenne più accentuata, il trotto finì, i cavalli si misero al passo ed a poco a poco le palpebre mi si appesantirono sugli occhi.

Dormii forse per un'ora ed a svegliarmi fu l'accentuarsi del suono dei campanelli dei cavalli, che si erano messi a correre avendo trovato un falso-piano in lieve discesa. Mi destai e sentii che il postiglione ed il suo aiutante discorrevano animatamente.

Tentai di comprendere ciò che dicevano ma le parole mi riuscivano incomprensibili. La parlata dialettale era diversa dalla nostra.

Mi ritornò il pensoiero del nonno e il desiderio di averlo vicino ma non volli questa volta ricorrere a Giacomo, sempre molto impegnato nel colloquio con l'altro. Capivo che non dovevo disturbare le persone grandi e che non conveniva scoprire la timidezza che mi prendeva a sentirmi staccato dal nonno. Quando però dopo un buon tratto di strada i due finirono di parlare, non seppi trattenermi e misiancora la mano sul braccio del postiglione e lui capì ciò che desideravo. Invece di darmi qualche notizia, sorrise e commentò:

– Ma gli vuoi proprio bene a questo nonno? tutto a lui! E all'altro?

Non risposi. L'altro non c'era, non l'avevo conosciuto; mi avevano raccontato un giorno che era morto e ciò mi aveva dato una così evidente tristezza da indurre i parenti a non farne più parola.

Intento a guidare i cavalli e ad ispezionare di continuo cinghie, catene e funi, Giacomo non attese nessuna risposta né si accorse della piccola pena, affiorata nel mio sguardo.

A poco a poco s'era fatto silenzio. La strada andava avanti per il fianco di una montagna rocciosa, lungo un decrepito muraglione dalla parte del pendio e intorno non si vedevano alberi né cespugli. Illuminato intensamente dal sole, lo scenario in quel punto appariva deserto, arido.

Brulla e squallida quella solitudine posata sugli enormi argini di roccia, sulle conche aperte nella pietraia.

E perché eravamo andati a passare proprio li?


Franco Ciampitti




 

Fonte: F. Ciampitti, Il grande viaggio, in T. Sardelli, Narratori molisani, Marinelli, Isernia 1975.

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