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Lettera a "Linea Verde"


La troupe di "Linea Verde" a San Pietro Avellana.

Spett.le Redazione di "Linea Verde", Egr. Conduttore,

ho visto la Vostra trasmissione nelle ultime domeniche di giugno, che parlava del tratturo e della transumanza, nel tratto che va dalla Puglia all'Abruzzo attraversando il Molise. Chi vi scrive nel Molise ci è nato, ne conosce la storia e si è sentito in dovere di dire la sua.

Fa sorridere il taglio della trasmissione che sta fra il frivolo, il romantico e il banale. Penso che un fatto vada raccontato per quello che è, per non far torto alla ragione delle cose e a coloro che quei fatti li hanno vissuti in condizioni di vita che definirle animalesche è un termine garbato. È come dire che Carlo Levi, Tomasi di Lampedusa, Leonardo Sciascia e Eduardo De Filippo hanno sprecato fiato ed inchiostro. Infatti, se nell'Italia settentrionale il Medioevo, condizione feudale dell'esistenza, è stato vissuto e superato nella storia dell'umanità dalla Rivoluzione Francese e dalla rivoluzione industriale di inizio secolo, nel Molise l'eco di tale rinnovamento non arrivò mai, e semmai questo si fosse verificato, ciò è accaduto soltanto in tempi recenti, non tanto per capacità e volontà propria, ma perché una migrazione "biblica" ha tolto ai ceti dominanti la materia prima che alimentava il loro benessere.

Laddove coesistevano in una economia arcaica, rurale e chiusa le condizioni di vita estreme, il benessere di pochi era strettamente e concretamente rapportato alla miseria dei molti.

A contendere il primato del benessere a quelli che erano una sorta di "viceré borbonici" che vivevano di privilegi consolidati dal latifondismo, e che di lì a poco si sarebbero giovati dei privilegi indotti dall'assistenzialismo meridionale, c'era appunto la categoria alla quale ci riferiamo: i proprietari di ovini. Per costoro i termini e le dimensioni del loro essere erano palesi ed evidenti non per il numero di capi di bestiami che possedevano, ma per le persone che avevano alle proprie dipendenze. Ciò nonostante, nei casi di maggiori dimensioni, nell'organico di quelle "imprese" quasi mai il numero degli addetti superava la mezza dozzina.

A capo di essi vi era un uomo di fiducia, una specie di caporale, chiamato il "massaro" (in dialetto il termine si pronuncia sostituendo con una "r" l'articolo e mutilando il nome della "o"), figura zelante e solerte che consentiva ai padroni di disinteressarsi dell'impresa e viverci di rendita.

Era d'uso che in quell'organico vi facesse parte un bambino a mo' di garzone; bambino la cui età spesso si scriveva con una cifra soltanto. Di certo era conveniente; se il salario di un adulto era di settemila lire, quello del bambino era appena di duemila lire... al mese!

Torna complicato stabilire oggi il potere di acquisto di duemila lire; negli anni che vanno dal 1950 al '60, per gente che viveva in miseria, i beni di consumo erano praticamente inesistenti.

L'abbigliamento di costoro era fatto di stracci rattoppati mille volte. Ma per le asperità del terreno, l'elemento calzature era inderogabile. Le scarpe non si vendevano; c'erano artigiani calzolai che le costruivano a mano, su misura, robuste e chiodate. Le scarpe costavano intorno alle cinquemila lire, il costo non credo fosse esoso, perché anche gli artigiani calzolai erano abbastanza poveri.

Quando un bambino doveva essere avviato a quel triste lavoro bisognava provvedere alla necessità; la madre lo portava dal calzolaio e con "supplica lacrimosa'' gli chiedeva di fargli un paio di scarpe che poi avrebbe pagato un po' alla volta. Quei debiti venivano onorati tardi, a volte in parte, a volte mai.

Se usiamo come termine di paragone lo stipendio di un adulto dei nostri giorni, quelle scarpe venivano a costare qualcosa come cinque milioni. Il termine di paragone più aderente e più sconsolante, è che quei bambini erano remunerati con l'equivalente dei due quinti del costo di un paio di scarpe, cioè all'incirca l'equivalente di mezzo chilo di pane al giorno.

Né vale mostrare a fine trasmissione, sul prato del tratturo, le squisitezze gastronomiche della gente del luogo. Quei pezzenti che lo attraversavano, che portavano come attrezzi di lavoro un bastone, a tracolla un ombrello e un tascapane ove dentro c'era un pezzo di pane e una borraccia d'acqua, sono ben altra cosa di quelli descritti e visti nella trasmissione televisiva.

Distinti saluti.

Roma, 8 luglio 1995.


Agostino Caporicci

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