Uno dei personaggi immaginari più suggestivi e sconvolgenti del folklore mondiale è sicuramente il licantropo, ovvero l'uomo lupo. Le superstizioni intorno ai lupi mannari sono storie meravigliose e terrificanti, che hanno sfruttato il binomio uomo/bestia ed il fascino che la commistione tra "natura umana" e "istinto animale" può suscitare nella fantasia di chiunque.
La definizione di lupo mannaro, secondo una delle tesi più seguite, dovrebbe significare uomo-lupo; derivando il termine mannaro dal suffisso man, che significa uomo in lingue come il tedesco e l'inglese. Anche se va sottolineato che il licantropo tedesco è detto wehr-wulf e quello inglese were-wolf. L'accezione italiana lupo mannaro ha larga diffusione nel nostro folklore e si contrappone al termine scientifico e più colto di licantropo; vocabolo quest'ultimo già usato da Plinio, il quale, parlando degli Arcadi, ci fa sapere che essi credevano ad una magia detta appunto licantropia, parola composta dal latino lycaon (licaone) - un canide molti simile al lupo - e dal greco anthropos - che significa, come tutti sanno, uomo. Tale magia faceva mutare le persone in lupi e, dopo un certo tempo, le medesime riprendevano la primitiva forma. Oltretutto, la mitologia greca narra di come Licaone, re d'Arcadia, figlio di Pelasgo e della ninfa Melibea, avendo imbandito a Zeus, suo ospite, le carni di un fanciullo, venisse trasformato in lupo per punizione. Come si può constatare, la credenza nell'uomo-lupo è molto antica ed ha saputo resistere ai tempi, sopravvivendo ancora oggi in molte culture. Anche nel Molise esistono varie testimonianze in tal senso, e nella nostra regione questa superstizione mostra precisi caratteri che possono permettere di disegnare un profilo abbastanza netto del personaggio. La più autentica tradizione folkloristica molisana vuole che sia lupo-mannaro colui che malauguratamente nasce la notte di Natale. Tale credenza è attestata in varie fonti letterarie che trattano argomenti demologici. Già nel 1853, Celestino Mucci, nel descrivere alcune credenze e alcuni pregiudizi di Sepino, ebbe ad annotare: «Chi nasce [...] nella notte di S. Natale è stimato lupo mannaro». Medesima credenza è quella di Capracotta, secondo quanto tramandatoci da Oreste Conti (1911), il quale, parlando degli usi natalizi del suo paese, dice: «Guai allo sventurato che venisse al mondo in questa notte! Sarà lupo-mannaro». In sintonia con questa idea è anche la testimonianza di Gennaro de Francesco, che in un articolo apparso sulla rivista campobassana "La nuova Provincia di Molise" (1885), scrive: «La notte di Natale si fa, com'è usanza, gran festa [...] Però a Campochiaro [...] la donna e l'uomo [...] che stanno sul punto di vedersi riprodotti [...] temono [...] che Domineddio non mandi loro proprio in quella notte un figlio, perché gli toccherebbe, secondo la ferma credenza del popolo, la sorte trista e irrevocabile di Lupo mannaro». La tradizione popolare di Bonefro ci dà indicazione anche del momento esatto in cui il bimbo deve nascere: «Chi nasce la notte di Natale, a mezzanotte precisa, diventa lupo mannaro» (da Colabella 1979). Infine, val bene citare un detto di Vinchiaturo: «Chi nasce la notte de Natale; se nasce mascure lupe menare, s'è femmena è streia» (da Nicotera 1980). Questo legame superstizioso tra il Natale e il lupo-mannaro sembra inquadrarsi male con la più pura tradizione cattolica, essendo il Natale il giorno in cui si festeggia la nascita del Bambino Gesù. Va, però, detto che tale notte è considerata magica, e in essa si possono verificare fenomeni soprannaturali e prodigiosi. Nel suo volume (1903) sulla storia ed il folklore di Riccia, Berengario Amorosa asserisce che il lupo mannaro «è un individuo che, attaccato da grave delirio di forma epilettica, nelle notti, specialmente quelle di marzo, esce urlando per le vie del paese, mordendo e lacerando qualunque cosa gli si fa innanzi. Riesce pericoloso e s'avventa a chi ha la sventura d'incontrarvisi; e cacciando bava dalla bocca, preferisce guazzare nella poltiglia delle pozze ove trova un gran refrigerio». Gennaro de Francesco, nell'articolo prima citato, dà indicazioni dettagliate su come il male si manifesta. Egli scrive: «Alcuni dicono d'averlo visto sotto la forma di un lupo [...] Altri [...] come un cane arrabbiato dalla coda spelacchiata [...] I più però dicono che si tramuti a poco a poco dalla cintola in su, cambiando la sua testa in quella d'un maiale dal brutto grigio e dalle orecchie pelose». De Francesco aggiunge poi: «Non si lasciava vedere che la notte di Natale, perché allora solamente vien preso dalle furie e da quelle trasformazioni [...] Ei corre furibondo per le vie del paese, mandando fuori urli spaventevoli; si getta a terra, sdraiandosi nel fango in mille guise, sino ad imbrattarsi da capo a piedi. Salta gran fossi impavido e lesto, si tuffa nella acque stagnanti per domare l'ardore eccessivo del male». In varie regioni la licantropia è conosciuta anche come "mal di luna", poiché molte credenze vogliono che il "malato" si trasformi in lupo nelle notti di plenilunio. Nel Molise questa caratteristica non sembra riscontrarsi. Infatti, non sono rintracciabili testimonianze chiare ed attendibili che mettano in relazione il lupo-mannaro con gli influssi della luna piena. Solo Nella Colantuono, nella sua tesi di laurea (1980), narrando un episodio di trasformazione di un uomo in lupo, scrive: «Si schiarì un po' il cielo e si vide la luna». Va anche detto che il periodo in cui sembra più facilmente manifestarsi la licantropia "molisana" è il mese di marzo. In tal senso si pronunciano sia la stessa Colantuono che il già citato Amorosa. E occorre sottolineare che le fasi lunari del mese di marzo sono quelle comunemente ritenute tra le più influenti sulla natura e sull'uomo. Il campobassano Enrico Melillo, nel suo volumetto "Otello rusticano" (1887), parlando del lupo mannaro ci fa sapere come sfuggirgli e come calmarlo: «Dicon che sia nemico della luce e che si è liberi dalle sue unghie restando abbracciati ad un lampione acceso, mentre egli passa. Raccontano pure che se uno lo punge con uno spillo, con un coltello, con un ferro qualsiasi, gli ridona immediatamente la calma. Il lupo allora si accosta pian pianino, in atto sommesso, al suo liberatore e lo chiama compare, baciandolo. Quando torna a casa [...] sarà libero del brutto male se viene aperto dalla moglie dopo di aver picchiato tre volte all'uscio. Se, per una qualsiasi combinazione, riesce a guadagnar la camera da letto senza prima aver picchiato, e continuerà la sua vita tormentata continuamente da quella penosa malattia. A meno che, la moglie – così la strana leggenda – non riesca a gettargli avanti una mappa (panno) rossa di lana, che egli, nel furor del male, riduce in pezzi minutissimi».
L'uso della mappa per placare il licantropo è segnalata anche da Gennaro de Francesco, che racconta di come una tale «Ntunijèlla, a cui, secondo la leggenda, era toccato in sorte un uomo di simil genere, [...] fosse solita gettare avanti al marito infuriato un pano di lana, che si campochiaresi chiamano mappa, e ch'ei si placasse dopo averlo ridotto a pezzi minutissimi coi denti». Il metodo di difesa con attrezzi appuntiti è pure testimoniato da Eduardo Saverio Di Iorio (1980) il quale dice: «Il lupo mannaro, [...] se punzecchiato da chi avesse avuto il coraggio di affrontarlo, sarebbe tornato in buono stato di salute». Lo stesso Di Iorio indica come anche l'acqua sia rimedio al male. Narra, infatti di un uomo che, avendo confessato d'esser lupo-mannaro alla propria moglie, volle dirle come fare per aiutarlo: «Dovrai farmi trovare dietro l'uscio un grande secchio, pieno colmo di acqua, in modo che io, gettandomici dentro, mi laverà e, rinfrescandomi, tornerò alla perfetta normalità». Questo legame come l'acqua è citato anche in una storiella di Campochiaro (da De Francesco): «La tradizione narra di certo Minchillo che, essendosi imbattuto in una donna, sua conoscente, alla volta di una fontana, le disse: "Buongiorno, comar Tresélla; se venivi un'ora prima mi ti mangiavo; ora mi son lavato e sto bene"». A Bonefro, invece «per far calmare questi tipi (licantropi) bisogna che prendano una chiave in mano» (da Colabella). Abbastanza particolare è la credenza di Riccia (da Amorosa) secondo la quale per salvarsi dal lupo-mannaro bisogna andare sulla sommità d'una scalinata perché «u lupemenare non può salire più di tre scalini». Vogliamo concludere l'analisi del lupo-mannaro nel Molise, con una breve storia; una delle tante che si narrano su tale personaggio. Questo il racconto:
C'era una volta un giovane contadino malato di licantropia, perché aveva avuto la sfortuna di nascere la notte di Natale. Era sempre riuscito a tenere segreto quel suo male a tutti, compresa la moglie. Un giorno di marzo, verso l'imbrunire, mentre si trovava con la consorte in campagna per lavorare, l'uomo si sentì assalire dai primi sintomi della mutazione. Prima di trasformarsi in lupo e dare sfogo ai suoi istinti animaleschi, chiamò la moglie e le disse: – Sono molto stanco per il duro lavoro; ho bisogno di bere un po'. Aspettami un attimo da sola che vado a dissetarmi presso il ruscello che scorre non lontano da qui. Stai attenta, però; potrebbe assalirti qualche bestia feroce venuta dal bosco. Se senti arrivarne una, mettiti in salvo salendo sul più vicino albergo. Se si tratta d'un lupo, puoi difenderti dai suoi morsi lanciandogli tra le fauci il tuo scialle. L'animale lo morderà e poi andrà via. Quindi, il contadino si allontanò in fretta. Era appena svanito alla vista della moglie che iniziò a mutarsi. Una febbre gli salì per tutto il corpo; le membra ed il volto si trasformarono in quelle d'un cane selvatico; poi si stracciò di dosso camicia e canottiera, mostrando una folta peluria. Era un lupo-mannaro! Iniziò a correre nei campi, cacciando bava dalla bocca e urlando come un ossesso. La moglie sentì le urla, che parevano proprio ululati di lupo, e si rifugiò impaurita sul più vicino albergo. Improvvisamente le apparve quell'essere bestiale, che cercò di salire sull'albero; ma non vi riuscì. La donna non riconobbe nel lupo il marito, perché mai l'aveva visto in quello stato. Poi, ella rammentò il suggerimento avuto, e lanciò sul muso dell'animale lo scialle. Il lupo azzannò con forza il panno, riducendolo in mille pezzi e dando pieno sfogo alla sua ferocia. Infine, calmandosi, sparì nel bosco. Dopo un po' riapparve il contadino, tornato alla normalità. La moglie appena lo vide, discese dall'albero su cui s'era rifugiata e corse ad abbracciarlo, sollevata per lo scampato pericolo. Giunta vicina al marito poté vedergli tra i denti i pezzi dello scialle morso e stracciato. Allora capì d'aver sposato un lupo-mannaro, e per il grande spavento ne morì all'istante.
Mauro Gioielli
Fonte: M. Gioielli, Il lupo mannaro nel Molise, in «Forche Caudine», 1, Roma, gennaio-febbraio 1990.
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