top of page

Mattone dopo mattone


Via San Giovanni negli anni '90 (foto: P. Dell'Armi).

Il narratore, come instancabile mastro carpentiere, deve raccogliere tutte le energie per affilare e cementare le parole giuste e, mattone dopo mattone, la struttura della storia vive sempre in una incredibile combinazione di pensieri, di idee e di volti.

Ogni personaggio trova il suo spazio ed è pronto per salpare verso quel viaggio immaginario e simbolico, nel quale porterà come unico e malconcio bagaglio la propria esistenza e, con essa, quella spolverata di fantasia e di leggerezza degli anni lievi; quel carico di malinconia e di solitudine degli anni maturi; quel fardello troppo pesante degli anni di vecchiaia, talora alleggerito dalla magia di uno sguardo a ritroso che fa brillare, tutto d'un fiato, l'incredibile viaggio della vita. Un piccolo paese di montagna fa da sfondo a questa nuova avventura dove i protagonisti sono gli uomini e le donne che, per incanto, rinascono dai ricordi di una grande casa sita nel quartiere di San Giovanni ed ancora brillano come stelle dalla luce inesauribile.

La bianca facciata sbruffata, nemmeno intaccata dal grigiore del tempo, rievoca il silenzio ovattato del paese innevato dove il vento e la neve danzano in coppia, intessendo danze vorticose come giri di valzer nell'aria.

L'aria, da silente qual era, improvvisamente diviene carica di energia e lungo la strada di San Giovanni, lastricata dalle quadrate pietre regolari e ben tagliate, il vento ruba la scena all'aria mite intessendo mulinelli di folate, tanto poderose e forti da spostare il peso di un uomo vigoroso e dalle spalle possenti.

Dalle finestre sulla via di San Giovanni si apre lo spettacolo mozzafiato della Maiella, la "Montagna Madre" degli Abruzzesi o "Padre dei Monti" come la definì Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia.

Lo sguardo incantato si perde nella cresta dei monti e nell'orizzonte, ancora più lontano, e, come la memoria, si immerge nei ricordi di una vecchia casa che ancora sa parlare di sé e degli uomini e delle donne che l'hanno abitata.

Tutti i componenti della famiglia, vicini e lontani, sono intenti, con le azioni e con il pensiero, a svuotare la grande casa Carnevale dagli infiniti oggetti e dalle suppellettili varie e tutti, chi più chi meno, hanno trovato qualche piccolo segno capace di rinverdire il cuore e di alimentare il ricordo fiero delle proprie radici montane.

La sala della bisnonna Michela, fatta di legno scuro ed intagliata con delle minute figure di angioletti sospesi nell'aere, giace lì con appeso un bigliettino giallo con la scritta: "Non buttare".

I locali sono vuoti e la memoria li rivive ad uno ad uno come nella sequenza di un vecchio film dalla bobina consunta, del quale solo ora scopro la trama: la vecchia bottega (putèca) di falegnameria di nonno Giulio e zio Giacomo, alla quale si accedeva attraverso una curiosa porta angolare di colore chiaro, utilizzata da noi bambini come una specie di altalena rustica per via di un predellino interno; il grande terrazzo dal quale ancora si può godere del verde fogliame dell'albero di noce; l'orto, senza tempo, che un tempo era affollato di fiori dai colori intensi e di belle piante bulbose e rigogliose.

L'operazione "svuotamento casa" tira fuori i ricordi e dai cassetti tanti documenti che parlano di quelle persone come se ancora fossero lì a ricordare che una casa si può svuotare ma la memoria no, quella resta salda nella vita di ciascuno e conferisce dignità ed identità a quello che siamo diventati con il trascorrere del tempo.

Un prologo più ampio per significare che gli oggetti ed i luoghi sanno parlare e persino raccontare degli uomini e delle donne che un tempo li hanno posseduti.

Primiano Carnevale, il mio bisnonno, nonostante ne avessi tanto sentito parlare, l'ho scoperto, anche nell'anima, durante questa strana operazione "svuotamento casa" come persona fiera ed allegra, dotata di forza d'animo e di cuore gentile; sposatosi ben presto con Michela Ianiro, che portò in dote addirittura una parte della vecchia casa, ebbe sette figli: Filomena, l'unica femmina, e sei maschi, dei quali, Giovanni, Cesare, Costantino e Pasqualino seguirono la strada tracciata da Don Bosco e si fecero preti; gli altri due, Giacomo e Giulio, divennero falegnami come san Giuseppe e sposarono le due sorelle Maria ed Anna, detta Annina, la quale, a sua volta, ebbe sette figli. Filomena, l'unica femmina, sposò un cancelliere e ben presto partì per la sua nuova vita.

Come in un moderno social network, le loro vite sgorgano, in uno con l'energia ed il dolore di quegli anni, dal linguaggio pacato e forbito delle tante lettere rinvenute nei vecchi cassetti, dal tono aulico e burocratico dei documenti e dai colori sbiaditi delle cartoline d'epoca, tutte conservate con una cura per i ricordi come se celassero ancora istanti di vita non consumati.

Nella grande casa abitavano tutti insieme, secondo gli usi del tempo, e tutti insieme dovettero affrontare lo strazio dello sfollamento; lo storico documento rinvenuto tra le vecchie carte, reca la firma del Commissario Prefettizio (data 8 novembre 1943) ed attesta, purtroppo senza possibilità di smentita:

...che la famiglia del Sig. Carnevale Primiano [...] a seguito dell'avvenuta distruzione dell'abitato di questo comune ad opera delle truppe tedesche si trasferisce nel comune di Agnone (prov. Lo Basso). Si rilascia il presente per far constatare quanto è detto e perché la suddetta famiglia possa usufruire dei mezzi di trasporto che le Autorità Anglo Americane potranno mettere a disposizione della stessa per il raggiungimento del Comune di Agnone. Beni perduti: mobili, suppellettili ed effetti personali dell'intera famiglia e abitazione propria.

La strada che condusse ad Agnone fu colma di sofferenze perché molti uomini - oltre ai beni perduti - sembrarono avere perso anche la speranza di poter continuare a guardare oltre l'orizzonte; in molti si sentirono incapaci di rimirare le nuove albe dai colori rosati ed i tramonti dalle sfumature cangianti, come se la dolorosa esperienza bellica avesse sbiadito i toni dell'iride e tutto prendeva la configurazione di un film muto, in bianco e nero: niente più voci, niente più colori!

Subito dopo lo sfollamento, giunta l'epoca della ricostruzione, nonno Primiano tuttavia non si perse d'animo e allestì una piccola fabbrica di mattoni (detta la Pincera o pinciera) con la quale aveva in animo di procurare a sé ed ai suoi compaesani il materiale per l'edilizia da riedificare.

La lettera (data 13 settembre 1945) indirizzata da nonno Primiano al figlio don Costantino, all'epoca cappellano militare, testimonia la fatica e le preoccupazioni di quel tempo e così, mattone dopo mattone, pare di udirne ancora la voce:

Amato Figlio... Domani, a Dio piacente, si darà fuoco alla prima cottura di mattoni. Io sono stato per due giorni al bosco a fare due traini di ceppe per casa ed ho fatto una buona provvista. Cerca di provvedere un po' di potassa se da costà se ne trova [...] Amoroso mi dice che sono sospesi gli attacchi di luce elettrica perciò l'attacco alla chiesa di S. Giovanni non può farlo e sarebbe un guaio se la novena si dovesse fare all'oscuro perciò ti prego di scrivere all'Unione Esercizi Elettrici per tale attacco. Rispondi subito. Ringraziandoti ti bacio. Papà.

Che emozione nel leggere le preoccupazioni di quegli uomini, che nel periodo di guerra avevano perso tutto (mobili, suppellettili ed effetti personali dell'intera famiglia e abitazione propria) eppure si preoccupavano della piccola Chiesa di San Giovanni perché sarebbe stato un guaio recitare le novene all'oscuro!

Le preoccupazioni non mancavano davvero per questi uomini vissuti negli anni dolorosi ed intensi e nonno Primiano morì di lì a poco per una violenta polmonite cagionata dalla fatica e dall'affanno derivati - come si dice - dall'avere impegnato tutto se stesso, e la propria vigoria, nella organizzazione della festa di san Giovanni.

Tra le carte, ecco che spunta un doloroso cordoglio, scritto di pugno dal fratello Vincenzo alla mia bisnonna Michela; la lettera, dai toni intensi e drammatici, riassume il dolore e la fatica di quegli uomini e di quelle donne vissuti nel tempo della guerra e così ora par di ascoltare una voce ferma e dolente declamare:

Carissima sorella, il 1943 ci ha fatto andare in rovina, le nostre case ed i nostri averi, il 1944 ci ha mandati esuli e raminghi ed il 1945 ci ha immersi nel lutto privandoci degli affetti più cari. Nel comune dolore piango con voi l'immatura perdita del caro Primiano ed esorto te ed i tuoi ad una santa rassegnazione, unico conforto a tanta sciagura.

La rassegnazione, si sa, consente ai saggi di attraversare con passo più leggero il guado doloroso dell'esistenza e di rendere meno grave il peso delle inevitabili fatiche del vivere; così fece nonna Michela negli anni a venire e per superare gli anni difficili ed il lutto prematuro si dedicò alla casa, alle minute cose di ogni giorno, ai figli e ai nipoti.

La lunga veste nera, talora grigia, abbellita da piccoli scialli, dai colori pastello, ben confezionati all'uncinetto e sempre appoggiati sulle spalle a scongiurare la potenza dello spiffero montano, agghindavano una femminilità d'altri tempi composta e quasi nascosta.

Gli occhi ridenti, dal colore nocciola, lanciavano penetranti scintille di luminosità a chi muto li interrogava e rivelavano tratti sapienti ed arguti, dai modi semplici e raffinati.

La tempra dai cromosomi robusti e longevi le aveva consentito di sfidare le intemperie ed il logorio del tempo, come si attraversa un lungo mare, senza mai smettere di tenere ben saldo il remo della piccola barca che conduce alla riva.

Il suo passo fermo, mi pare ancora di udirlo rintronare nelle piccole orecchie, calcare il solaio malfermo e ballerino della vecchia sala, tutta ricostruita con le traversine della ferrovia dismessa per fare economia sui materiali al tempo della ricostruzione.

Nonna Michela era solita preparare profumati brodini vegetali, quasi anticipando la moda della cucina salutistica; ne ricordo ancora l'odore rimasto impresso nella mia memoria olfattiva di bambina, sempre così impegnata nella ricerca del segreto della vita da immagazzinare i volti, i profumi ed i racconti di quelle belle estati dell'infanzia.

La sua ricetta miracolosa era quel profumato brodino, che consumava tutte le sere, segno di una alimentazione essenziale e fatta di pochi e selezionati ingredienti.

La casa, superati gli anni difficili, era sempre allietata dal rumore giocoso di molte persone ed era come se vivesse, in uno con gli uomini e le donne che l'abitavano, di una vita allegra ed insolita dove gli umori, gli ardori, i dolori e le gioie, con una imponderabile mescolanza, rivelavano segnali di una vita autentica e di forte socialità.

La casa pulsava nei rumori della falegnameria dove i piccoli apprendisti si recavano per imparare il mestiere ed emanava odori intensi: il profumo del legno segato di fresco evoca ricordi teneri ed infantili, come se l'odore di quei trucioli fosse ancora lì a parlare di quelle persone.

Nonno Giulio con i suoi petressi (ovvero piccoli pezzi di legno tagliati in modo regolare, proprio come delle pietre quadrangolari, da qui forse il termine dialettale) mi procurava rudimentali giocattoli, per i quali io andavo pazza tanto da custodirli gelosamente come un antico tesoro.

La sua maestria artigianale era accompagnata anche da un forte impegno verso la società civile come rivelano i vecchi "Schemi di lezione per la formazione politica e sociale" della nascente Democrazia Cristiana, custoditi nel vecchio cassetto del comò. Pagine sbiadite e giallognole dove si spiega il senso del vivere politicamente, a cui consegue «il dovere di una preparazione morale» e il «dovere di una preparazione culturale». Trovo anche il libro mastro con l'annotazione della contabilità della piccola Chiesa di San Giovanni. In quel quaderno, dal sapore antico, le entrate, le uscite ed i riporti sono indicati in grafia stilografata, bella e precisa, quasi si fosse trattato di redigere un bilancio di una moderna società multinazionale.

Quanti volti riemergono dalle stanze vuote della vecchia casa; volti di uomini e di donne legati alla terra ed alle radici inestirpabili delle proprie origini montane; volti che hanno saputo lasciare traccia, come firma indelebile, nei piccoli gesti e nelle povere cose possedute.

E così... mattone dopo mattone... tutti i volti cari riappaiono e sembrano ancora parlare di sé, col solo monito di non disperdere i semi della loro esperienza perché, mattone dopo mattone, come casa dalle solide fondamenta, si costruisce l'esistenza e si diventa uomini e si diventa donne... e si impara a camminare con passo fermo sul solaio ballerino della vita.


Luisa De Renzis

 

Fonte: L. De Renzis, Mattone dopo mattone, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. V, Proforma, Isernia 2014.

bottom of page