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Il Parroco: ricordo di don Nicola Angelaccio


Un vecchio santino

Nicola Angelaccio ritratto da Agostino Caputi.

Riandando col pensiero al caro amico e maestro don Nicola Angelaccio, il compianto arciprete di Capracotta, di cui in questi giorni cade il quindicesimo anniversario della morte, mi sono ricordato che, fino a non so quanti anni fa, avevo con me, nel portafogli, un vecchio santino, donatomi da lui, nientemeno... quando era seminarista a Chieti.

– Ce l'ho ancora? – mi sono chiesto, – Dove sarà?

Mi sono messo a frugare qua e là, fra vecchie carte, e finalmente il santino è spuntato fuori. L'ho guardato a lungo con affettuosa tenerezza, come se avessi ritrovato un amico, dopo anni di lontananza.

C'è, impressa, l'effigie, a colori, del Sacro Cuore del Batoni; dietro, scritta ad inchiostro, con una grafia lievemente inclinata, leggera, aerea quasi, la dedica, semplice: "A Domenico D'Andrea". Sotto, a matita, scritto da me, credo: "Ricordo di N. Angelaccio".

Mentre riponevo, commosso, il santino nel portafogli, sono riaffiorate dal fondo della memoria, nitide, le circostanze del piccolo dono.

È una tiepida sera di primavera, una primavera lontana di tanti anni fa. La via Nuova, al mio paese, pullula di ragazzi schiamazzanti. Ad un tratto si affaccia alla finestra zia Edelia e ci chiama, facendoci cenno con la mano di entrare.

– Ha scritto Nicolino da Chieti. C'è qualcosa per voi: venite.

Entriamo. A zia Edelia, quando parla del figlio Nicolino, il volto si illumina di gioia, una gioia soffusa di commozione. Legge la lettera e, leggendo, là dove lo scritto è più tenero e affettuoso, si commuove e una lacrima le riga il volto. Nicolino, a fine lettera, saluta i piccoli amici della via Nuova e di San Rocco e li ricorda uno per uno, tracciando di ciascuno, con rapidi cenni un colorito ritratto.

Dietro alle parole si sente la sua gaia, lunga risata, bonariamente canzonatoria. Poi zia Edelia ci dà i santini, che Nicolino ha inviato insieme con la lettera.

 

Il seminarista

I più remoti ricordi che io abbia di Nicolino risalgono al tempo in cui era seminarista a Trivento.

Nel nostro concetto era molto in alto, come su un piedistallo: criterio, per così dire, di fiducia e di certezza; per le mamme e anche per i padri, termine di confronto, oggetto di ammirazione.

Quando d'estate tornava a casa da Trivento, per le vacanze, noi ragazzi cambiavamo di punto in bianco il ritmo e i tempi dei giuochi consueti. Appena la notizia del suo ritorno arrivava sotto ai prati, lasciavamo tutto a mezz'aria e correvamo trafelati da lui, così come ci trovavamo, con le mani impiastricciate di terra, sporchi e sudati. La cucina di zia Edelia formicolava di teste infantili e si accendeva di occhi sfavillanti. Nicolino, con la veste talare e il colletto inamidato, che gli conferivano, agli occhi di tutti, grandi e piccoli, decoro e dignità, ci salutava affettuosamente, chiamandoci per nome, e, sorridendo, ci posava la mano sul capo, come per una carezza. Noi lo guardavamo estasiati e pendevamo dalla sua bocca. Ad un tratto, quasi senza ragione, scoppiava a ridere, prima sommessamente, a mezza bocca, poi più forte, sempre più forte, a sbellicarsi. Rideva, rideva. Che risata piena, schietta, felice, irrefrenabile! Mai sguaiata: contenuta nel tono, contegnosa, dolce e sonora. E noi tutti a ridere fragorosamente appresso a lui. Quando la risata rientrava, Nicolino ci dava i santini e le medagliette. Zio Cesidio sorrideva beato, tutto pace e serenità. Zia Edelia riusciva a malapena a contenere la sua gioia, intrisa, come sempre, di commozione, per il ritorno del figlio seminarista. Ad un certo punto, quando le cose andavano un po' per le lunghe:

– Bambini, – diceva con tono materno – ora Nicolino deve riposare; tornate domani.

Cominciava così la nostra magnifica estate: una estate tutta speciale, quasi a mezzo servizio, col seminarista: scarrozzate per i prati e passeggiate tranquille, da collegiali; giochi e preghiere; terra e cielo, sacro e profano.

La mattina, quando non eravamo a scapicollarci sotto al Tirassegno, eravamo sicuramente nei prati sotto casa a manipolare la terra bruna, a scavare gallerie e buche, a costruire casotti di sassi e fango, col sole di luglio che picchiava. Il pomeriggio, rimessi un po' su dalle mamme e tornati decentemente presentabili, via con Nicolino in chiesa, all'asilo, dalle suore, a passeggio alla Madonna, appiccicati alla sua tonaca. Strada facendo, ci raccontava le storie sacre, ci parlava di religione e, pieno com'era di interessi culturali d'ogni sorta, ci intratteneva anche su altri argomenti del sapere. Cercava di trasfondere in noi curiosità e amore per la conoscenza. E così le nostre menti si aprivano, piene di stupore, ad orizzonti più vasti, ben oltre, certo, i modesti confini del piccolo mondo di sotto alla via Nuova. Si andava formando in noi un'aurora di spiritualità e di religiosità più consapevole. Parlando, parlando, ad un certo punto, non sapevi neppure tu come, Nicolino scoppiava a ridere e quel suo riso pieno, lungo, dolce e sonoro, così di cuore, contagiava tutti. Da che cosa scaturiva quell'incontenibile fiotto di riso? Forse dall'ingenuità degli atteggiamenti e dei comportamenti infantili, forse dalla semplicità e dalla stranezza delle situazioni che venivano a crearsi nella gaia e vivace comitiva, forse da altro. Una sera, all'imbrunire, mentre tornavamo da una passeggiata, vedemmo dei lumi brillare, tenui, ad intermittenza, nei prati sotto a Ponte Tre. Imbottiti come eravamo di racconti di streghe e di spettri di ogni risma, che ci procuravano sogni pieni di incubi, il nostro pensiero corse subito ai fantasmi. Nicolino, tranquillo, persuasivo, ci spiegò la natura fisica del fenomeno, i fuochi fatui, e ne prese le mosse per dare una prima spazzata alle fisime di cui era permeata la nostra immaginazione.

A settembre Nicolino tornava in seminario e noi restavamo più soli e sbandati.

Terminati i corsi del liceo-ginnasio a Trivento, Nicolino passò al seminario vescovile di Chieti per seguire il corso di teologia e percorrere l'iter degli ordini sacri maggiori. Noi entravamo allora nell'adolescenza e lui era nel pieno della giovinezza.

Si avvicinava, fra l'attesa di tutti, il momento dell'ordinazione sacerdotale. Fu ordinato l'anno 1936, se non ricordo male. Per la prima messa a Capracotta, subito dopo l'ordinazione, fu scelta la festa dell'Assunta. Quel giorno il paese sembrava tutto un seminario: dappertutto uno sbattere di tonache, nere e bordate di viola, di preti, seminaristi e monsignori. La chiesa era tutta uno sfavillìo di luci e un candeggiare di cotte.

Il rito, reso più solenne e suggestivo dal corale alto e sonoro dei seminaristi, faceva vibrare gli animi di commozione. Tutti gli occhi erano rivolti al novello sacerdote, nei paramenti color oro, al centro dell'altare, in mezzo agli altri concelebranti. Vicino a lui, l'assistente, che gli apriva il messale alla pagina giusta, gli dava qualche suggerimento, gli stava sempre alle costole. Noi aspettavamo che si voltasse verso il pubblico al "Dominus vobiscum" per guardarlo in viso. Lui, umile, con gli occhi bassi, si voltava verso i fedeli e... non finiva di recitare la formula di saluto, che subito si rigirava all'altare, quasi a cercarvi rifugio e protezione. Gli si poteva leggere in viso una gioia contenuta, tutta interiore.

Della festa esteriore ricordo il banchetto sotto a casa sua. Tutto il pianterreno di casa Angelaccio era stato "requisito" per il pranzo. Il festeggiato stava con i familiari e i monsignori nella stanza sul lato sinistro, quella di zia Miruccia. Io capitai vicino alla porta d'ingresso e ogni tanto mi dovevo alzare per lasciare passare i vivandieri o qualche commensale. Ci furono brindisi e discorsi augurali. Nicolino, in fondo, appena visibile, sorrideva con modestia alle lodi.

Ben pochi della cerchia dei piccoli amici del seminarista parteciparono al pranzo. C'erano Gino e Alfredo, suoi cugini, oltre a me, che ero un po' parente per via di zia Edelia. Gli altri si fecero vedere, per gli auguri, quella sera stessa o il giorno dopo.

 

L'abate arciprete

Nicolino, ma ormai è tempo di chiamarlo don Nicola, poco dopo l'ordinazione, fu destinato dalla Curia alla parrocchia di Sant'Angelo del Pesco, che si fregiava dell'ambito titolo di sede abbaziale.

Quell’anno io non potei andare fuori a continuare gli studi e allora don Nicola mi prese con sé a Sant'Angelo per prepararmi privatamente. Vennero anche, per lo stesso motivo, Giampietro Venditti e Giuseppe Della Croce.

Io e Giampietro eravamo anche suoi pensionanti e facevamo quindi vita in comune con la sua famiglia. Lezioni al mattino, dopo la messa. Nel pomeriggio, dopo il pranzo, se il tempo lo permetteva, facevamo insieme, insegnante e allievi, una lunga passeggiata, andando per la strada che menava a Castel del Giudice. Qualche volta arrivavamo sotto alla Madonna di Saletto, che è a una bella distanza da Sant'Angelo. Si parlava di tutto. Don Nicola era versato anche nelle materie non propriamente consone al suo ministero: particolarmente ferrato era nelle materie scientifiche, forse per una inclinazione innata. La conversazione quindi, oltre che ricreativa, risultava un utile complemento delle lezioni giornaliere.

La residenza del novello abate era in una vecchia e decorosa casa gentilizia. C'erano molte stanze, androni, corridoi; c’era un cucinone con un grande camino da cui prendeva tono tutto l'ambiente. Quando ci riunivamo insieme, intorno al desco o accanto al camino, formavamo un bel gruppo. Fortuna che c'era anche Filomena, che, svelta e fattiva com'era, dava una mano, anzi tutte e due, per il disbrigo delle faccende domestiche.

C'era mamma Cammuccia, la madre di zia Edelia, una di quelle donne tutte dolcezza e serenità, di cui si va perdendo il ricordo. Sferruzzava accanto al fuoco, nelle giornate fredde, o seduta nel vano della finestra per prendere sole e luce, quando il tempo era bello.

La mattina il primo ad alzarsi era zio Cesidio, il nostro zi Cesino. Lo si sentiva muoversi piano, in cucina, mentre accendeva il fuoco o feceva qualche altro servizio. Che conversatore amabile, zi Cesino! Aveva un modo di evocare persone e fatti, dal lontano passato, che incantava.

Ogni tanto arrivava qualche prete giù a Sant'Angelo e naturalmente veniva ospitato in casa. Una volta scese da Capracotta, per un breve ciclo di predicazione, il venerando padre Placido, nostro amato concittadino, la cui facondia viva e penetrante, era ovunque nota non meno della santità della sua vita. La chiesa, alla predica, era gremita di gente.

A pranzo, in casa dell'abate, dove era ospitato, padre Placido parlava adagio, con gravità e dolcezza, e noi lo ascoltavamo rapiti.


Don Nicola tra i bambini di Sant'Angelo del Pesco alla prima comunione.
 

Giampietro

Io e Giampietro, nei primi tempi, dormivamo insieme in una camera. Ma Giampietro, dotato di una volontà ferrea, rimaneva sveglio, curvo sui libri, fino a mezzanotte ed oltre. Provai anch'io a fare come lui, per un senso di emulazione, ma non ressi neppure due giorni: cascavo dal sonno. E allora me ne andai a dormire in un'altra stanza.

Ogni tanto litigavamo e allora non ci parlavamo per un pezzo. Don Nicola non diceva niente, ma ci soffriva. Noi finalmente capivamo che dovevamo smetterla e allora l'atmosfera tornava serena.

 

Il catechismo

A primavera don Nicola, anche per darci modo di fare un po' di tirocinio, ci incaricò di tenere lezioni di catechismo ai bambini della parrocchia. Fu quella la prima esperienza di insegnamento. L'anno di Sant'Angelo, con don Nicola per maestro, fu un anno proficuo sia sotto l'aspetto culturale, sia sotto quello spirituale.

 

Anni difficili

La guerra, come si espresse icasticamente un nostro compaesano, un bel giorno «dalla lontana Africa, arrivò sopra la soffitta di casa nostra».

Sant'Angelo e Capracotta furono mezzo spianate.

L'abate, rimasto senza casa e senza chiesa, andò peregrinando con la famiglia qua e là per il Chietino, da una parrocchia all'altra. Si fermò in fine a Torrebruna. Più tardi, quando la bufera della guerra si fu placata e le cose cominciarono a riprendere il corso normale, don Nicola concorse per l'arcipretura di Capracotta, rimasta vacante dopo la partenza per Roma del vecchio arciprete. Vinse il concorso e venne finalmente al suo paese. Anche la sua casa a Capracotta era stata distrutta. In attesa che venisse ricostruita dal Genio Civile, venne a stare con la famiglia a casa nostra; occupavano due vani al seminterrato, abbastanza spaziosi, ma affatto confortevoli. Quelle stanze erano state sempre adibite a deposito di mercanzie varie. Don Nicola vi si adattò con spirito di sopportazione. Riservato com'era, sembrava che non ci fosse.

Poi andò ad abitare nella casa del maestro Ottorino, sul Corso. Finalmente un po' di respiro! Era una casa abbastanza confortevole, spaziosa. Don Nicola aveva anche uno studio, un angolino tranquillo dove ritirarsi per lavorare e pregare.

Qualche volta andavo a trovarlo e, se il tempo era buono, uscivamo a conversare nel giardino di casa.

 

La casa canonica

Nacque proprio allora in lui l'ideazione della casa canonica. E qui don Nicola rivelò sorprendentemente di avere un non comune senso di concretezza e una notevole capacità organizzativa.

In chiesa, sotto alla Congrega di Carità, c'erano dei gradi spazi, che nel passato erano serviti come deposito di arredi e altro materiale e anche come sepoltura di ecclesiastici. L'arciprete ci vide subito la casa canonica. Si mise al lavoro. All'inizio, nella fase di progettazione, incontrò difficoltà di ogni genere, ma non si perdette d'animo, lottò per superare le resistenze e finalmente la cosa prese a decollare. Il Genio Civile si assunse l'onere della costruzione; preparò il progetto e appaltò i lavori.

Anche nella fase di realizzazione si presentarono non poche difficoltà, ma esse furono tutte superate grazie anche al pragmatismo dell'arciprete, il quale, ad un certo momento, si assunse la responsabilità dell’apporto di importanti modifiche al progetto iniziale, suggeritegli, sul piano dell'attuazione, oltre che dall'esperienza dei mastri muratori, dalla sua visione realistica delle cose.

Finalmente la casa canonica divenne una realtà e l'arciprete vi si trasferì con la famiglia. L'antica collegiata di Capracotta poteva finalmente ospitare, fra le sue vecchie e massicce mura, il titolare della parrocchia.

 

La Gilera 500

L'attività pratica era per don Nicola un necessario complemento di quella pastorale e spirituale. L'una e l'altra si armonizzavano in lui felicemente.

Aveva acquistato una moto Gilera 500 e se ne serviva per andare fuori paese, di norma per affari inerenti il suo ministero. Era curioso vederlo trasformato in centauro, a cavallo della grossa macchina scoppiettante. Per ripararsi dal vento, si infilava, sotto la tonaca, grossi fogli di giornale.

Un giorno la Gilera si guastò e don Nicola la rimorchiò nella cappella di Santa Filomena e ve la fece svernare.

Un pomeriggio di primavera mi chiamò perché lo aiutassi a smontare la macchina: intendeva ripararla. Mentre lavoravamo, lui mi spiegava, come un provetto meccanico, il funzionamento dei vari organi. “Ma dove hai imparato”, gli chiesi.

– In nessun posto, – mi rispose – basta avere un po' di dimestichezza con i principi della fisica e della meccanica e far lavorare il cervello per capire il funzionamento degli organi. Certo, bisogna esserci portati.

Riparò la Gilera e riprese a correre rombando, con i giornali sul petto. Poi l'abbandonò perché, di salute cagionevole, era troppo esposto alle correnti. Comprò allora una Seicento, ma neppure questa conobbe mai il meccanico.

 

Umiltà e carità

Imparare l'arte di sapersi controllare non è cosa da poco. Don Nicola l'aveva appresa attraverso un lungo e perseverante esercizio di autocontrollo. Era difficile vederlo adirato, nel senso pieno del termine. Solo qualche rara volta l'ho visto fremere di sdegno, che è cosa ben diversa dall'iracondia. Contrastava le idee e le opinioni, che non riteneva giuste, con la forza della ragione.

Riservato com'era, nei primi tempi del suo ministero dava l'impressione di poca compartecipazione ai problemi e ai travagli dei suoi parrocchiani. Ma chi lo conosceva bene, sapeva quanto grande fosse e sofferta la sua carica di solidarietà umana e di cristiana pietà. Avvertiva come gli altri e più degli altri la difficoltà amara dei duri tempi che correvano e si sforzava, come meglio poteva, di alleviarli con sacrificio anche personali. Proprio la sua riservatezza, la sua integrità, generavano talvolta negli altri atteggiamenti di incomprensione e talvolta anche di ripulsa e di critica. Lui reagiva con serena e filosofica calma, senza scomporsi, magari con l’arma del sorriso, senza neppure l'ombra del dispetto o della ripicca.

Svolgeva il suo ministero pastorale con spirito di dedizione, sorretto da una fede adamantina. E purtroppo ci volle del tempo prima che tutti ne prendessero coscienza.

 

La predicazione

Un anno l'arciprete, all’omelia domenicale, svolse un ciclo di predicazioni sul Credo. Poi, l'anno appresso, un altro sul Pater. Questi corsi mi sono rimasti impressi per la profondità e la coerenza degli argomenti trattati, il cui valore, oltre che spirituale, risultava essere anche didattico. L'omelia era costruita con sistema, che chiamerei scientifico, probabilmente derivatogli dalla grande dimestichezza che aveva con la filosofia di san Tommaso e, forse, dalla conoscenza della fisica galileiana. Tutto il suo sistema mentale, d'altra parte, aveva una struttura dottrinale e teologica modellata sul pensiero dell'Aquinate. Nelle sue argomentazioni sembrava di notare una sorta di sillogismo: poste solidamente le premesse del discorso, si perviene alla verifica e alla conclusione.

Un giorno mi chiese, non per avere apprezzamenti - non era proprio il tipo - cosa pensassi delle sue omelie, o, per meglio dire, se esse, a mio avviso, erano ben comprese da tutti. Gli risposi, con tutta franchezza, che meglio non potevano essere costruite e che erano adeguate alla comprensione di tutti.

 

Semplicità di vita

Zia Edelia non aveva grossi problemi di culinaria con don Nicola, anzi direi che non ne aveva affatto. Parco come era, e non solo nel mangiare, si contentava di niente. Una minestrina, di solito, come primo piatto; un uovo o un po' di formaggio per secondo; un po' di verdura, quando c’era, e un frutto. Carne, di rado; vino, poco o niente. Lamentele per il cibo non erano in uso in casa.

 

San Nicola

La statua di san Nicola.

Sei dicembre, San Nicola. Uno spesso strato di neve ghiacciata ricopre le vie. Folate di tramontana ci investono mentre saliamo verso la canonica. Stiamo andando a dare gli auguri di buon onomastico all'arciprete. È un rituale che si celebra tutti gli anni. Don Nicola ci accoglie con la consueta affabilità.

Ci sediamo intorno al camino, ove scoppietta un bel fuoco di legna di cerro. Parliamo di un po' di tutto.

Mio zio Oreste, conversatore facondo, tiene banco. Ha un modo di raccontare aneddoti e fatti così convincente, che te li fa vedere davanti, come se tu vi assistessi allora allora. La sua narrazione, a parte una leggera, sfumata cornice, è permeata da un sottile spirito d’ironia, che la rende ancora più seducente. Don Nicola sorride, annuisce. Il narratore piano piano, senza avvedersene, fa scivolare la conversazione sul sociale e sul politico, il suo cavallo di battaglia, anzi, per meglio dire, il suo elemento. L'arciprete, fattosi più serio, interviene con sensate osservazioni, ma non dà mai l'idea di voler primeggiare. Il protagonismo gli è sconosciuto.

Zia Edelia offre pizzelle fatte in casa e un bicchiere di vino.

 

Zio Cesidio

Quando se ne andò zi Cesino, il rito funebre lo celebrò proprio il figlio, l'arciprete. Mentre dalla sacrestia, seguito dal sacrestano, don Nicola si avvia all'altare, riesce a contenere, seppure con grande sforzo, la sua commozione.

Comincia la celebrazione della messa. Per un po' l'arciprete va avanti, recitando le parti sommessamente, dolorosamente. Ad un tratto, all'improvviso, incomincia a singhiozzare, piano: singulti appena percettibili da coloro che stanno vicini alla balaustra dell'altare. Ogni tanto, mentre continua la celebrazione, uno spasmo lo scuote tutto. Alla benedizione funebre, che segue subito dopo, la commozione è cosi intensa che solo con un'eroica fatica riesce a portarla a termine.

 

Le elezioni

L'arciprete di politica si interessava poco: quel tanto che riteneva necessario per l'attinenza all'esercizio del suo ministero. Tuttavia, nei primi tempi, la sua partecipazione politica fu notevole, specie all'epoca del cosiddetto Fronte Popolare, quando si temette, non ha importanza se a torto o a ragione, per le sorti della democrazia.

In quell'occasione sfidò, in contradditorio, un candidato di sinistra. Lo "scontro" ebbe luogo nella sede del circolo ricreativo e don Nicola, ferrato com'era in tutto, dette non pochi punti all'avversario.

Anche nelle amministrative di quegli anni fece sentire il suo peso.

 

Le passeggiate al Monte

Il pomeriggio, quando il tempo era buono, prima delle funzioni vespertine, l'arciprete se ne andava con la sua Seicento sotto al Monte. Parcheggiava al limitare del bosco, giù, verso la Montagna, e cominciava la sua tranquilla passeggiata lungo quel tratto di strada pianeggiante e diritto che corre nell'ultimo tratto del bosco. Avanti e indietro, leggendo il breviario. Ogni tanto si fermava e sedeva sul parapetto del ponte. Interrompeva la lettura e rimaneva un po' così, in meditazione, assaporando la dolcezza dell'ora, prossima al tramonto, nella pace vespertina.

Se qualcuno si fermava, don Nicola, con la consueta affabilità, si metteva a discorrere di questo e di quello, sempre sorridente, tranquillo.

 

L'inverno gelido

Passano gli anni. Don Nicola ha i capelli grigi. Il suo volto si è fatto ancora più sereno, disteso. Continua a svolgere il suo ministero con immutata dedizione.

L'inverno, il rigido inverno capracottese, è lungo, duro a morire.

Le navate della chiesa matrice sembrano un’enorme ghiacciaia. Le stufette a gas, sistemate presso i pilastri della nave centrale, fanno ben poco: riescono appena ad ammorbidire, in un piccolo spazio intorno, la muraglia di aria gelida.

Sull'altare il freddo è ancor a più pungente. L'arciprete, mentre officia, deve spesso interrompersi per la tosse, una tosse stizzosa, pertinace, che ogni tanto esplode in un accesso convulso, che lo scuote tutto. Lui aspetta che passi e riprende.

All'omelia, peggio di peggio. Gli accessi lo costringono ad interrompersi continuamente. È una pena vederlo così strapazzato. Mai un lamento!

Quanti inverni così!

 

Addio, don Nicola!

L'arciprete non sta bene. Vado, a trovarlo in casa. Seduto a tavolino, nel suo studio, ove ha fatto erigere un piccolo e semplice altare, sta leggendo. Mi sorride affabilmente e mi invita a sedere. Dal grande finestrone a meridione piove una luce calda e tenera. Parliamo di un po' di tutto. Accenna appena al suo stato di salute. Ha il volto scolorito, pallido, ma non emaciato. Non sta proprio bene.

Passa qualche mese. Il suo stato di salute si fa precario. Ci sono serie apprensioni

da parte di tutti.

È operato a Roma, al Santo Spirito.

Torna in paese. Le sue condizioni precipitano. È inverno. Don Nicola se ne va.

Vado a trovarlo. È a letto. Filomena va a sentire se vuole scendere. Si leva e viene giù in cucina. Ci sediamo accanto al fuoco. È sereno, tranquillo. Prende interesse alla conversazione. Zia Edelia e Filomena cercano di nascondere, in sua presenza, la loro angoscia.

Torno qualche giorno dopo e vado a salutarlo nella sua camera. È il commiato. So che soffre e cerco di non affaticarlo. Mi parla, adagio, di tante cose. Fa capire, ma senza darlo a vedere, che è consapevole della prossima fine.

Ad un tratto si fa triste.

– Se il Signore vuole che io vada, – dice – io sono pronto; ma che cosa lascio di buono? Ho fatto tutto quello che il Signore si attendeva che io facessi?

Pronuncio qualche parola di conforto. Gli ricordo il bene che ha fatto.

– Coraggio, caro Don Nicola, ti riprenderai.

– Sarà come Dio vorrà!

A distanza di tanti anni, mentre scrivo queste poche note di ricordo, risento ancora in me, commosso, l'eco di quelle parole, le ultime che io abbia sentito da lui. In esse, a pensarci bene, è espressa tutta la grandezza della sua fede e la speranza della divina misericordia.


(1983)


Domenico D'Andrea

 

Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.

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