L'uso civico è un diritto di godimento collettivo spettante ai membri di una comunità che si concreta in varie forme (caccia, pascolo, legnatico, semina) su terreni di proprietà pubblica o privata (perlopiù nobiliari di origine feudale). Per quanto riguarda gli usi civici del bosco, Capracotta vanta una storia giurisprudenziale antica quanto la nobiltà e dolorosa come un'ingiustizia reiterata. Nei secoli il nostro problema è stato via via risolto da due campioni del foro, Biase Zurlo (1755-1835) nel 1811 ed Emanuele Gianturco (1857-1907) nel 1902. Oggi il problema si è ripresentato in forme nuove - con un'azienda campana che taglia e vende legna capracottese a Capracotta! -, ma diverso è stato l'effetto sulla popolazione, non più spaventata dall'inverno polare capracottese, potendo contare sul metano e sulle altre forme di riscaldamento casalingo.
Della eccezionale presa di posizione del Zurlo ne ho accennato in un precedente articolo, ma voglio comunque raccontarVi qualcosa di più, partendo ab ovo, dalle origini della questione dei boschi di Capracotta alla storica causa che valse a Emanuele Gianturco la cittadinanza onoraria e un bellissimo busto bronzeo nell'omonima piazza del rione S. Giovanni. Vi racconto cioè del contenzioso sorto tra Stanislao Falconi (1794-1880) e il Comune di Capracotta, al termine del quale la Corte d'Appello di Napoli aveva pubblicato, il 6 marzo 1901, una sentenza «contraria alle ragioni dei nostri concittadini in quanto che ha confermata un'ordinanza emessa il 19 giugno 1863 dal Prefetto, quale Commissario demaniale, ordinanza che prescriveva la divisione dei boschi ex feudali, attribuendone due terzi al Falconi ed un terzo al Comune». Quella sciagurata sentenza d'appello - che sembrava non tenere conto dei precedenti giudicati - suonò in un primo momento come una fanfara di morte per il popolo capracottese, ormai rassegnato a crepare di freddo per la testardaggine di alcuni signorotti.
I feudi di Capracotta, proprietà della famiglia ducale Capece-Piscicelli, valevano a quel tempo 250.000 lire (circa 1.200.000 euro). Con l'approvazione delle cosiddette leggi eversive della feudalità, la Commissione feudale determinò nel 1810 la natura di questi feudi e ne propose la divisione secondo i criteri stabiliti. Il commissario demaniale Biase Zurlo s'accorse però di due cose: la prima era che la Commissione s'era ingannata sulla natura di due feudi dichiarati separati; la seconda stava nel fatto che Capracotta meritava forse un trattamento speciale, «onde sciogliendo e compensando diversi usi civici, ne lasciò intatto uno, quello di legnare». A tutto ciò il Zurlo provvide con un'ordinanza del 19 dicembre 1811. Pochi anni dopo, nel 1815, i Capece-Piscicelli, ormai decaduti, cedettero uno dei feudi (Ospedaletto) al sig. Liberio Scocchera di Vastogirardi, mentre gli altri feudi furono acquistati dal nostro Stanislao Falconi nel 1854.
Dovete ora capire che né i Capece-Piscicelli né i sigg. Scocchera e Falconi godettero mai dell'uso dei boschi. Nonostante ci fosse stato un formale passaggio di proprietà, «i padroni assoluti ed esclusivi delle piante arboree sono stati i cittadini di Capracotta, ed il Municipio, provvedendo alla conservazione dei boschi, ne ha sempre disciplinato il modo di godimento». È così che i nostri concittadini, a ragione o a torto, si sono sempre considerati i veri proprietari del bosco di Capracotta.
Arrivati al periodo unitario, in ciascuna provincia del Regno fu richiamato l'esame delle pendenze demaniali esistenti. Tra il 1861 e il 1863 il prefetto di Campobasso richiese di incontrare un rappresentante in grado di addivenire, coi successori dell'ex duca, a una conciliazione per quanto riguardava la promiscuità boschiva nell'agro feudale del Comune. Il sindaco di allora, Croce Conti, cercò di battersi all'arma bianca finché, preoccupato, inviò a Campobasso un uomo di fiducia, Amato Nicola Conti - già sindaco nel 1860-62 e di nuovo nel 1867-69 - come persona pratica di legge, senza alcun mandato ufficiale né facoltà di definire o transigere sui diritti del Comune.
Ciononostante, l'audace Conti eccedette i limiti del proprio incarico e il 20 aprile 1863, davanti al prefetto Giuseppe Arditi, trattò personalmente col procuratore legale di Liberio Scocchera, consentendo la divisione del bosco di Ospedaletto, dandone due terzi al proprietario di Vastogirardi e un terzo al Comune di Capracotta. Fallirono invece le trattative di conciliazione con Stanislao Falconi, perché questi non riconobbe alcun diritto al Comune di Capracotta, obbligando il prefetto a pronunciarsi in via contenziosa sulla fallita conciliazione.
Non appena queste notizie giunsero alle orecchie dei capracottesi, si generò un diffuso malcontento, e le proteste furono così accese che il Governo dovette emettere un nuovo decreto, il 20 settembre 1864, che annullava il precedente, quello che aveva omologato il concordato con Liberio Scocchera. La motivazione del secondo decreto di revoca risiedeva nel fatto che Amato Nicola Conti «non aveva ricevuto mandato determinato, e la sua nomina a rappresentante era stata fatta dalla Giunta e non dal Consiglio contrariamente alle leggi amministrative sulla competenza».
Stanislao Falconi, borbonico fino all'osso, se ne infischiò delle rimostranze dei capracottesi, dell'ordinanza regia del 1863 e persino del bosco di Capracotta. Dal canto suo, invece, Liberio Scocchera ritentò nel 1875 a dividere ed accantonare quanto poteva spettargli dell'Ospedaletto e riuscì a sospendere il taglio del bosco, il che causò nuovi tumulti e violenze a Capracotta. La 1° Sezione della Corte di Napoli, con sentenza del 24 maggio 1875, confermò la legittimità delle aspirazioni di Scocchera e con successiva sentenza del 6 aprile 1877 intimò di verificare se i capracottesi godevano dell'Ospedaletto conformemente agli usi ed alle leggi forestali. Da questa sequela di decreti, revoche e ordinanze, risulta evidente la contrarietà dei diversi giudicati.
Annullando la conciliazione del 1863 Conti-Scocchera per irregolarità di forma negli atti, perché non si è considerata nulla anche l'ordinanza sulla vertenza Conti-Falconi una volta che sussistevano gli stessi difetti di forma, visto che a trattare fu sempre Amato Nicola Conti, all'infuori del suo incarico ufficiale? E perché nessuna sentenza ha mai preso in considerazione la possibilità di revocare l'ordinanza di Biase Zurlo, emessa in condizioni non dissimili? La Corte ne aveva forse rilevato l'effettiva giustezza ed equità?
Nel 1901 il Comune di Capracotta ingaggiò Emanuele Gianturco per ricorrere in Cassazione e, quando ogni cosa sembrava perduta, la grande perizia dell'avvocato lucano ci garantì la vittoria su tutto il fronte: i boschi di Capracotta tornavano ufficialmente nelle mani dei capracottesi e il diritto legnatico, regolamentato dal Municipio, veniva assicurato a tutti i suoi abitanti.
Francesco Mendozzi
Bibliografia di riferimento:
C., La quistione dei boschi, in «L'Alba», I:14, Isernia, 21 aprile 1901;
L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature, Antoniana, Ferentino 1931;
L. Filidei, Dei demani comunali, vol. II, Volpe, Salerno 1890;
G. Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni, vol. III, Di Mauro, Cava de' Tirreni 1952;
F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese, vol. I, Youcanprint, Tricase 2016;
T. Mosca, In memoria di Emanuele Gianturco. Discorso pronunziato in Capracotta il 9 settembre 1912, Bertero, Roma 1912.
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